Sarà un mese da dimenticare, segnato da impianti chiusi o che viaggeranno con il motore al minimo e solo per una manciata di giorni. Un periodo così nero non si era mai visto e riporterà l’Italia indietro di oltre sessant’anni, dritta al 1957, quando si produssero un numero di auto simili alle previsioni del 2024. Trecentomila o giù di lì, mai così poche da allora. Solo che quello fu un anno magico per la Fiat, con il lancio della prima 500. Mentre oggi proprio quel modello, nella sua versione elettrica, è il simbolo dell’agonia di Stellantis. Mirafiori, dove si produce l’iconica vettura della casa automobilistica, resterà vuota fino all’1 novembre e la previsione della Fiom, anticipata a Ilfattoquotidiano.it, è di appena 15 giorni di lavoro negli ultimi due mesi dell’anno. Dal rientro dalla pausa estiva, più lunga del previsto a causa della chiusura anticipata, i giorni in fabbrica si sono contati sulle dita di una mano: più che le preoccupazioni riguardo al futuro, bisognerebbe prendere atto che la crisi è già qui. E sta travolgendo tutto.

I dati (tremendi) dell’ultimo trimestre
Lo dimostrano i dati desolanti (“una visione parziale” del momento, secondo l’azienda) comunicati dalla Fim-Cisl nell’aggiornamento al report sui volumi di Stellantis nel 2024: nei primi nove mesi tutti gli stabilimenti italiani sono “in profondo rosso, e non era mai successo”, denuncia il segretario Ferdinando Uliano paventando la perdita di 25mila posti di lavoro. Da gennaio a settembre la produzione italiana del gruppo segna -31% sullo stesso periodo del 2023 con 387.600 veicoli, fra auto (-40,7%) e veicoli commerciali (-10,2%). Fra luglio e settembre sono in negativo “anche i siti di Pomigliano e di Atessa che nei primi due trimestri erano in positivo” e “se proiettiamo questo dato con le richieste di cig, come quella comunicata a Mirafiori, possiamo pensare che la situazione della produzione 2024 sarà inferiore a 500mila, con le auto sotto quota 300mila” mentre lo scorso anno la produzione globale nel nostro Paese era stata di 751mila unità. Qualcosa di mai visto nel gruppo, rimarca il sindacalista, mentre il leader della Uilm Rocco Palombella richiama quella data antichissima: “Si segna il minimo storico, tornando ai livelli del 1957″. Dopo fu il boom, ora invece il piano è inclinato in direzione contraria e ha spinto i sindacati a proclamare uno sciopero nazionale del settore il 18 ottobre.

L’inversione di Pomigliano e Atessa
Oltre allo stabilimento torinese desolatamente vuoto nel suo cuore pulsante, è emblematico il recente crollo di Pomigliano d’Arco e Atessa. L’impianto campano ieri è rimasto fermo per la mancanza di componenti, a causa di un indotto stritolato dalla carenza di commesse e quindi costretto a sua volta a rallentare la produzione. Ad ottobre i 4.100 dipendenti – che già convivono con gli ammortizzatori sociali – dovranno anche fare i conti con 12 giorni di cassa integrazione. E pensare che da qui, nel primo semestre, è uscita la metà delle auto italiane (103.920) ed era stato l’unico sito a far segnare un aumento di volumi rispetto al 2023 (+3,5%) insieme ad Atessa (117mila furgoni, +2%). Anche nella fabbrica abruzzese sono arrivati i nuvoloni: negli ultimi due giorni è scattato il fermo a causa della mancanza di pezzi e in ogni caso fino al 3 novembre sono in cassa integrazione tra gli 800 e 1.200 operai, con la produzione ferma a 630 Ducato al giorno.

Melfi quasi ferma, Cassino in peggioramento
Se la passano addirittura peggio i 5.400 operai di Melfi, in contratto di solidarietà fino ad agosto 2025, dove i volumi sono crollati del -61,9%. La produzione della 500X è sospesa, quella delle Jeep Renagade e Compass benzina e ibrido va avanti a stop and go da luglio con una media di appena quattro turni a settimana. La previsione è di sfornare 3mila macchine al mese, quando in tempi normali quel numero di vetture corrisponde a due giorni pieni di lavoro. Tradotto: l’impianto è sostanzialmente fermo. Anche a Cassino, una delle fabbriche maggiormente travolte dalla crisi già negli scorsi anni, i 2.567 lavoratori convivono con il contratto di solidarietà al 48% fino al 31 dicembre. Un taglio delle ore che da martedì riguarda anche le unità produttive Stampaggio lamiera e Plastica, finora salve perché al servizio anche di altri stabilimenti. In fabbrica si fa un solo turno, dalle 6 alle 13.30: la produzione si assesta a 190 auto al giorno, con la Grecale ad alimentazione elettrica inchiodata ad appena dieci vetture. Il quadro rischia di peggiorare nelle prossime settimane: secondo i sindacati è probabile il ricorso alla cassa integrazione e circola insistentemente la previsione di 18-20 giorni di lavoro da qui a fine anno.

Termoli tra cassa e futuro incerto
“Gli stabilimenti non sono in cassa integrazione da quando è iniziata la transizione all’elettrico, ma da anni e anni. Non produciamo né elettriche, né ibride e nemmeno endotermiche”, ha sottolineato il segretario generale della Fiom Michele De Palma. “Uno dei problemi delle fabbriche italiane – ha aggiunto – è che non facciamo più le auto mass market, quelle per il popolo. Anche la 500, oggi, non si inserisce nel segmento di mercato delle sue vecchie versioni”. I volumi al lumicino hanno rallentato anche Termoli, dove si assemblano i motori Fire: nel giro di poche settimane, Stellantis ha comunicato il raddoppio della cassa integrazione che scatterà dal 14 al 27 ottobre per i 2mila dipendenti di un’altra fabbrica simbolo in questo momento. L’impianto molisano dovrebbe infatti diventare la gigafactory di Acc, il consorzio guidato da Stellantis e partecipato da Mercedes e Total. Nonostante i 400 milioni di euro del Pnrr destinati dal governo alla riconversione, il progetto è stato sospeso. C’è chi pensa che, alla fine, non vedrà mai luce allargando ulteriormente la crisi del settore auto.

X: @andtundo

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