Rivelare quanti stabilimenti balneari, quanti bar, quanti tassisti e quante lavanderie godono della flat tax riservata alle partite Iva con ricavi fino a 85mila euro metterebbe a rischio le “scelte di politica monetaria e valutaria”. Parola del ministero dell’Economia, che con questa motivazione ha negato una parte dei dati chiesti dal fattoquotidiano.it attraverso un accesso civico. La direzione studi e ricerche economico-fiscali del dipartimento Finanze ha risposto alla richiesta di conoscere i redditi medi dichiarati da chi, in quelle categorie, ha aderito al regime forfettario, ma non ha fornito il numero dei contribuenti coinvolti. L’appiglio con cui si giustifica il diniego è perlomeno bizzarro se si considera che la politica monetaria è da 25 anni affidata alla Banca centrale europea.
La vicenda inizia in agosto, quando ilfattoquotidiano.it presenta istanza di accesso civico – una possibilità garantita dalla trasposizione italiana del Freedom of information act – per conoscere il numero dei ristoranti, bar, tintorie, noleggi auto, tassisti, autofficine, discoteche, stabilimenti balneari, idraulici, elettricisti e pelliccerie che godono della flat tax riservata al momento a chi ha ricavi sotto gli 85mila euro e sapere quanto hanno dichiarato nel 2020, 2021 e 2022. Si tratta di numeri non pubblici: al momento sappiamo solo che il regime agevolato che consente di pagare solo il 15% di tasse al posto delle normali aliquote e addizionali ha attirato sotto il suo ombrello 1,8 milioni di autonomi, ditte individuali e professionisti. La ripartizione tra categorie e i redditi sono ignoti.
Ai primi di settembre il Tesoro risponde allegando solo una tabella con i redditi. Dentro ci sono le medie tra quelli dei forfettari (a cui si applica la flat tax del 15%, ridotta al 5% nei primi cinque anni di attività) e di chi è nel regime “dei minimi“, ormai residuale, che consentiva ai giovani con partita Iva aperta prima del 2016 di versare solo il 5% fino al compimento dei 35 anni. Non è dato però sapere quanto sia ampia la platea da cui quelle medie sono state ricavate.
I numeri restano interessanti, soprattutto se confrontati con le medie dei lavoratori dipendenti – la categoria che per definizione non può evadere, al netto dei possibili lavoretti in nero – pari a 21.500 euro per il 2021 e 22.280 euro per il 2022. Un’avvertenza: per i forfettari il reddito tassabile si determina applicando dei coefficienti di redditività diversi a seconda dell’attività svolta ai ricavi o compensi dichiarati, al netto delle deduzioni. La tabella del Mef contiene il lordo che deriva da quel calcolo, ma a monte ci sono appunto le cifre che il contribuente comunica di aver incassato dai clienti. Per i balneari il reddito medio si è fermato a 14.688 euro nel 2020, 14.519 nel 2021 e 16.676 nel 2022. Nell’anno di piena ripresa del turismo post Covid avrebbero dunque portato a casa 1.389 euro lordi al mese. I bar e le pasticcerie, dopo un calo a 6.399 euro nel 2020, sono saliti a 7.922 euro nel 2021 e 9.356 nel 2022: 779 euro al mese. Le autofficine, volendo credere alle cifre inserite in dichiarazione, non hanno superato i 740 euro al mese. Cifre da povertà assoluta. Ristoranti, pelliccerie e lavanderie in regime forfettario hanno registrato a loro volta forti recuperi rispetto al 2020 ma i primi non vanno oltre i 973 euro al mese, i pellicciai non arrivano a 950, i tintori stanno sotto i 1000. Quanto ai tassisti, dopo un crollo a 5.200 euro nel 2020 il 2022 ha visto una risalita dei redditi “ufficiali” a 13.912 euro annui, pari a 1.159 lordi al mese.
Gli unici forfettari che superano le dichiarazioni dei dipendenti, con 23.149 euro di media nel 2022, sono idraulici ed elettricisti. Categorie per cui è probabile che la tendenza alla sottofatturazione sia stata contenuta dal successo dei bonus per i lavori in casa: per chiedere le detrazioni, il proprietario ha bisogno giocoforza della fattura e questo elimina l’incentivo ad accettare uno “sconto” in cambio di prestazioni in nero. Nella classifica dei più “benestanti” seguono le discoteche e sale da ballo, che hanno visto quadruplicare i redditi rispetto al primo anno dei lockdown arrivando a 18.753 euro di media.
La mancanza del numero di contribuenti coinvolti non consente però di capire quanto generalizzata sia stata la migrazione alla tassa piatta all’interno delle singole attività e quanto significative siano di conseguenza le medie. Ilfatto.it presenta allora richiesta di riesame al responsabile per la prevenzione della corruzione e per la trasparenza del Mef, come previsto dalla legge. La risposta arriva a fine settembre. In premessa si ricorda che il decreto trasparenza del 2013 prevede che “chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai sensi del presente decreto, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi pubblici e privati giuridicamente rilevanti”. Tuttavia, prosegue il documento, l’accesso incontra “un limite non superabile nelle cause ostative enunciate dall’articolo 5-bis”, tra cui i casi in cui “l’accesso è subordinato al rispetto di specifiche condizioni di modalità o limiti”. E “in detta fattispecie rientrano anche le categorie di documenti che le singole amministrazioni individuano come sottratte all’accesso“.
Fin qui – purtroppo – tutto come da eccezioni ed esclusioni previste per legge. A questo punto la responsabile della trasparenza ritiene di citare a sostegno del diniego una norma specifica: l’articolo 3, lettera a del decreto ministeriale 603 del 29 ottobre 1996, “recante il Regolamento per la disciplina delle categorie di documenti sottratti al diritto di accesso” del Mef. Che dice? Che per salvaguardare “la riservatezza dei processi di formazione, di determinazione e di attuazione della politica monetaria e valutaria” (sic), sono sottratti all’accesso “studi, relazioni, indagini ed elaborazioni finalizzati alla determinazione e all’attuazione della politica tributaria e alla quantificazione del gettito fiscale, dalla cui anticipata diffusione possa derivare pregiudizio alle scelte di politica monetaria e valutaria“. Ma, tre anni dopo il varo di quella norma, l’Italia come gli altri Paesi dell’Eurozona ha ceduto le competenze su quelle scelte all’Eurotower. La spiegazione, con tutta evidenza, non può essere quella. Quali siano i rischi che giustificano la mancata trasparenza resta insomma mistero.