La prossima manovra, dice il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, richiederà “sacrifici” da parte di tutti. Ma “la stella polare”, garantisce, sarà l’articolo 53 della Costituzione: quello secondo cui “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” e il sistema tributario deve essere progressivo. Il problema è che al momento la progressività – maggiore è il reddito più si paga – resta solo un miraggio. Il fisco italiano è in realtà regressivo a favore dei molto ricchi. Ancora più di quanto si sapeva finora. È la conclusione a cui arriva un nuovo paper pubblicato da ricercatori dell’Istituto di Economia della Scuola Superiore Sant’Anna e dell’Università Milano Bicocca. Gli autori Matteo Dalle Luche, Demetrio Guzzardi, Elisa Palagi, Andrea Roventini e Alessandro Santoro propongono anche come rimediare e riportarlo sui binari previsti dalla Carta. Le opzioni tra cui il titolare del Mef potrebbe scegliere sono due: aumentare le aliquote applicate sui redditi di chi sta in cima alla piramide. O introdurre una tassa sulla ricchezza netta, scelta più efficiente per evitare l’elusione.
Gli accademici partono da nuovi dati sulla distribuzione della ricchezza messi a disposizione dalla Banca centrale europea. E scoprono un’evidenza sgradevole, anche se non inattesa: i capitali messi a frutto dal 10% più benestante rendono più di quelli di un investitore medio. Un bel po’ di più: quasi il 5% annuo contro il 2,5% portato a casa dal restante 90% della popolazione. Le spiegazioni sono tante. Miglior accesso ai mercati finanziari, più patrimonio da investire e opportunità di investimento, maggiore possibilità di accollarsi il rischio di perdite. Il risultato è uno: visto che i redditi da capitale sono tassati meno di quelli da lavoro, chi è già nel ristretto gruppo dei più ricchi vede aumentare le sue fortune a un ritmo superiore a quello degli altri senza per questo pagare più imposte. Anzi: per il 7% di italiani con redditi più alti (e non solo per il top 5%, come da stime di un precedente paper) il sistema fiscale diventa appunto regressivo. Vale a dire che l’aliquota media pagata da chi fa parte di quella élite è inferiore a quella applicata a chi sta nelle fasce più basse della piramide. Il top 0,1%, empireo in cui si trova chi ha un patrimonio medio sopra i 15 milioni di euro, paga un’aliquota effettiva del 32%, sotto quella applicata ai redditi tra 28mila e 50mila euro.
Fin qui la diagnosi. Poi arrivano le proposte, che si inseriscono nel dibattito globale sull’opportunità di una imposta minima globale sui molto ricchi di cui si è discusso in estate al G20 di Rio. Il paper simula che cosa succederebbe tassando di più i redditi da lavoro e da capitale del top 7% e confronta l’esito con quello che si otterrebbe varando una wealth tax a carico della stessa fascia di contribuenti. Nel primo scenario, per aumentare l’equità e ridurre la disuguaglianza dei redditi netti si potrebbero applicare a tutti i redditi del 7% più benestante aliquote effettive di almeno il 51%. Per il top 0,1% il livello ottimale sarebbe del 60%. Al momento, come è noto, l’aliquota Irpef massima è al 43% e i redditi da capitale sono tassati al 26% con l’eccezione dei titoli di Stato. Il gettito fiscale complessivo aumenterebbe del 7% e il risultato “regge” anche tenendo conto di un eventuale impatto sui comportamenti dei contribuenti che in teoria potrebbero essere indotti a lavorare o investire di meno oppure a evadere di più. Sarebbe meno efficiente un intervento limitato ai redditi da capitale con un’aliquota marginale del 61% su quelli del top 7%: il gettito salirebbe del 5,6%. A spanne si parla comunque di una cifra superiore ai 30 miliardi. Abbastanza per risolvere i problemi di Giorgetti alle prese con una manovra che si prospetta lacrime e sangue.
Gli effetti di un potenziale aumento di tasse vanno però sempre calati nella realtà. Come hanno fatto notare molti studi precedenti, i “Paperoni” hanno molti mezzi per gestire e spostare i propri redditi in modo da ridurre al minimo la tassazione. La loro capacità contributiva viene quindi catturata meglio guardando ai patrimoni, più difficili da manipolare. Per raggiungere gli stessi risultati in termini di equità e gettito il paper studia quindi anche l’opzione di una wealth tax. Ad essere colpite sarebbero le ricchezze nette superiori a 450mila euro. Le aliquote effettive per il 7% più ricco dovrebbero partire dallo 0,3% per i patrimoni oltre i 450mila euro e salire gradualmente fino all’1,7% per il top 0,1%. Il gettito sarebbe paragonabile a quello di un aumento delle aliquote sui redditi. Conoscendo gli usuali argomenti contro le patrimoniali, i ricercatori sfatano facilmente uno dei più gettonati, cioè il rischio che chi deve pagarle non abbia liquidità sufficiente: quella fascia di contribuenti ha asset liquidi compresi tra il 54 e il 65% della ricchezza netta. Basterebbe venderne una piccolissima parte per essere in grado di rispondere alla chiamata dell’erario.
I risultati della ricerca, spiegano gli accademici, suggeriscono una possibile direzione ai futuri interventi di riforma fiscale che volessero ridurre le disuguaglianze, aumentare il gettito e invertire la rotta rispetto alla regressività del sistema. La delega messa in campo lo scorso anno dal governo Meloni va in tutt’altra direzione: conferma gli iniqui regimi cedolari e forfettari che svuotano la base imponibile Irpef, offre alle partite Iva un concordato biennale con il fisco accompagnato da un maxi condono sulla passata evasione, lascia immutate le franchigie e aliquote delle imposte sulle successioni che fanno dell’Italia un paradiso fiscale per gli eredi e non interviene in alcun modo sulla tassazione dei più abbienti.