“Non è questione di destra o sinistra, ma di classe lavoratrice”. I politici che vogliono difendere i diritti dei più deboli ripartano da Union. Il documentario diretto da Brett Story e Stephen Maing, in queste ore in prima italiana nella rassegna Mondovisioni di Ferrara, è il sasso che manda in frantumi ogni pavida ovvietà riformista degli ultimi quarant’anni. In Union vengono seguiti Chris Smalls e altre decine di operai – afroamericani, bianchi, giovani e vecchi, donne e uomini, laureati e non – dello stabilimento JFK8 di Amazon a Staten Island, New York.
Una manciata di popolo comune che fa turni massacranti (7.15/17.45, pausa di mezz’ora) tra merce da preparare e spedire in mezzo mondo (l’ellissi sull’inesorabile zeppa nave cargo), e che dopo un anno di lotte fonda l’ALU (Amazon Labour Union), sindacato totalmente autonomo rispetto ai colossi sindacali Usa che mai hanno messo piede chez Bezos. Da noi, in Europa, dove il consociativismo della “triplice” è oramai burletta, guarderemmo Smalls, un ex rapper licenziato da Amazon, in prima linea fisicamente per far ottenere i diritti minimi ai suoi ex colleghi, con la lente del populismo (ad esser buoni).
Negli Stati Uniti, invece, dove la trafila marxismo-comunismo-socialdemocrazia nel mondo dei diritti del lavoro non sanno cosa sia, l’esperienza di ALU è una specie di epifania di indipendenza sociale e onestà morale, esempio pubblico che potrebbe dilagare. Tanto da far paura in primis ad Amazon (che usa ogni mellifluo mezzo per ostacolare ALU tra gli operai) e a tutti i rappresentanti democratici (deputati e sindacati) che prima di aiutare il sindacato autonomo vogliono “attendere l’appoggio di Biden” (aspetta e spera). Insomma, non è una storiella per Kamala e Donald, ma al massimo per Bernie (Sanders).
Story e Maing seguono sommessamente l’incedere quotidiano di Chris&soci ai cancelli dell’enorme stabilimento in attesa dell’esito referendario per farli diventare regolari rappresentanti sindacali di 8600 operai. Volantinaggio, persuasione, cibo decente donato gratuitamente, quattro chiacchiere con i colleghi stanchi e disillusi per far capire che là dentro, semplicemente ti sfruttano e non hanno alcun rispetto per te. Union, in fondo, è una lunga sequenza di esterni, di assaltatori saltellanti fuori dal castello del re Jeff Bezos che intanto – parallelo visivo e simbolico che apre il documentario – viene sparato in orbita sul primo razzo in volo con ospiti paganti. Tanto basta sborsare milioni. Soldi che arrivano dal sempiterno grattugiato profitto ai danni delle masse di lavoratori senza tutele e diritti che si sentono “schiavi”. Una lezione sorprendente di azione politica senza etichette partitiche quella che insegna Union attraverso l’azione martellante di Chris e colleghi sempre lì a prendere la polvere in mezzo alla strada, a pochi metri dai rulli incalzanti di merce. Una lezione anche di cinema documentario quella di Story e Maing.
Esempio di pedinamento, osservazione, puntigliosità alla Frederick Wiseman, con una (anzi almeno un paio, più i tanti dispositivi degli operai) macchina da presa che restituisce senza troppi filtri didascalici e di montaggio immediatezza dei fatti e persino una cruda improvvisazione dei soprusi subiti dai protagonisti. Un plauso, infine, a Cineagenzia di Sergio Fant che ogni anno offre una selezione letteralmente spiazzante del documentario contemporaneo per le giornate di Mondovisioni. Che questi titoli facciano fatica a trovare sale dove essere proiettati è una vergogna culturale che sconfina nell’ignoranza pregiudiziale.
Qui il programma – con due proiezioni di Union – di questi giorni