Ormai tutte le principali banche italiane vogliono gestire in proprio il business delle polizze vita e fare concorrenza diretta in questo segmento di attività alle compagnie assicurative. L’ultimo annuncio di “internalizzazione” è quello arrivato ieri da UniCreditche ha posto fine alle partnership bancassicurative a partire da quella con i tedeschi di Allianz, storico alleato e azionista fin dai tempi della privatizzazione dell’allora credito italiano. Una svolta annunciata, che fa seguito all’analoga scelta effettuata anni fa da Intesa Sanpaolo che ha fatto da apripista nell’ingresso diretto delle banche nell’arena assicurativa (non solo nel comparto Vita ma anche nel ramo danni, escluso le polizze auto). Anche il Credem ha da tempo proprie fabbriche prodotto nel comparto e pure BancoBpm ha sciolto le partnership nel Vita per gestire internamente il business delle polizze vita. E Mps, stando alle cronache, ha trattative in corso per sciogliere in anticipo rispetto alla scadenza gli accordi con la compagnia francese Axa.

A motivare la nuova strategia delle principali banche italiane sono ragioni di business ma anche, e forse soprattutto, le opportunità offerte in Europa dalla regolamentazione internazionale della nuova Basilea 3 e in particolare del cosiddetto Danish Compromise, così chiamato perché approvato dalla Ue durante la presidenza di turno della Danimarca, che riduce rispetto al passato l’assorbimento di capitale nei bilanci delle banche per le attività assicurative di diretta proprietà.

Di solito, quando una banca investe in altre attività come le assicurazioni, deve riservare una certa quantità di capitale per coprire eventuali rischi. Questo meccanismo serve a garantire la solidità finanziaria dell’istituto bancario.

Con il “Danish Compromise”, questo requisito viene ridotto per le banche che possiedono attività assicurative, rendendo meno oneroso per loro entrare o espandersi in questo mercato. Ciò significa che le banche possono gestire e vendere polizze assicurative senza dover accantonare troppo capitale, il che le rende più competitive rispetto alle compagnie assicurative tradizionali.

Un cambiamento regolamentare che sta trasformando l’industria finanziaria in Italia, con le banche che stanno diventando sempre meno partner e sempre più concorrenti delle compagnie assicurative che vedono cadere i ricavi che, per oltre venti anni, sono derivati dagli accordi di bancassurance. A capire in anticipo il trend che sarebbe derivato dalla nuova regolamentazione di Basilea 3 è stata Unipol che, per tutelare i benefici delle proprie vendite di polizze agli sportelli bancari, ha scelto di diventare azionista di riferimento prima di Bper e poi di Popolare Sondrio.

L’impatto della regolamentazione bancaria internazionale e le sue applicazioni recenti sono un fenomeno relativamente nuovo e destinato ad aprire, forse, ulteriori frontiere nel business. Pochi giorni fa un report di Mediobanca Research ha svelato che tra i benefici patrimoniali per le banche ricompresi nel Danish Compromise è anche ricompresa la loro crescita nel settore dell’asset e wealth: in altre parole, se una banca vuole comprare una società di gestione dei patrimoni (asset o wealth management), può farlo utilizzando meno soldi rispetto a quanto richiesto in passato, a condizione che questa acquisizione venga fatta tramite la loro controllata assicurativa. È grazie a questo “sconto” regolamentare che Bnp Paribas ha potuto comprare Axa Investment Manager per 5 miliardi ma con un assorbimento del patrimonio di Vigilanza di soli 2 miliardi.

Questa novità ha suscitato l’interesse di altre banche in Europa, che, a quanto risulta al Sole24Ore, ora stanno chiedendo maggiori dettagli alle autorità competenti per capire meglio come sfruttare questa opportunità.

Le nuove regole stanno quindi trasformando il business delle banche, portando vantaggi evidenti per gli istituti finanziari. Ma questi vantaggi si rifletteranno anche sui clienti che investono, spesso non per scelta, in polizze di risparmio, Unit linked, index linked e polizze vita legate a gestioni separate? Questi prodotti, tra i più venduti (e, in pochi casi, richiesti) in Italia dalle banche e dalle compagnie di assicurazione come alternativa ad azioni, obbligazioni o titoli di Stato, comportano costi significativi per i clienti.

Ricordiamo che le somme investite in tali polizze vengono destinate a fondi interni gestiti dalle stesse compagnie, che a loro volta investono in fondi comuni di investimento. E allora, perché fare questo doppio passaggio se il risultato è simile a quello dei normali fondi comuni? La risposta è semplice: perché così si remunerano sia la banca che la compagnia di assicurazione, spesso appartenenti allo stesso gruppo.

I costi per i clienti sono infatti strutturati su più livelli: c’è quasi sempre un caricamento iniziale, una commissione elevata, destinata alla compagnia di assicurazione, che riduce subito il capitale investito. A questo si aggiungono le commissioni di gestione del fondo interno, che variano a seconda del profilo di rischio, e talvolta anche commissioni di performance. Inoltre, se il cliente decide di riscattare il suo investimento nei primi anni, potrebbe dover pagare delle penali di uscita decrescenti nel tempo.

Ora, se la banca non deve più remunerare la compagnia di assicurazione, il vantaggio per il cliente dovrebbe essere l’eliminazione o almeno una significativa riduzione dei caricamenti iniziali. Ma lo faranno davvero? La domanda è retorica.

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