Crime

Delitto di Via Poma, rivelato il nome di chi lavorava con Simonetta Cesaroni in ufficio: era scritto sui fogli presenza poi scomparsi

Il 18 novembre il GIP deciderà se archiviare l’ultima inchiesta

A pochi giorni dall’udienza in cui si deciderà se archiviare o meno l’ultima indagine sul delitto di Via Poma, prevista il 19 novembre, emergono nuovi inquietanti dettagli sul truce omicidio di Simonetta Cesaroni, la ventenne di Cinecittà assassinata il 7 agosto del 1990 a Roma in una stanza degli uffici dell’Aiag, l’Associazione italiana degli ostelli della gioventù, dove la ragazza lavorava come contabile.

L’inchiesta
Da un’inchiesta del settimanale “Giallo”, viene fuori il nome di un dipendente dell’Aiag che nell’estate del 1990 era con lei in ufficio. “Si chiamava Pierpaolo De Risi ed è morto lo scorso maggio all’età di 62 anni. La sua firma compare sui fogli presenza che sono stati ritrovati dopo 34 anni”, si legge dall’inchiesta.

Il riferimento è ai fogli firma (oggi sostituiti dai badge), misteriosamente spariti all’epoca delle indagini dal registro delle presenze e altrettanto misteriosamente ricomparsi pochi mesi fa, con sopra le firme dei dipendenti dell’Aiag, in servizio in quei giorni a via Poma. Fino al ritrovamento di questi fogli, la versione data alle forze dell’ordine dai dipendenti era che Simonetta in quel periodo era sola in quell’ufficio. Prima che fossero sottratti, una dipendente dell’Aiag li fotocopiò e li diede al papà di Simonetta, Claudio Cesaroni che li consegnò al suo avvocato che però non ne afferrò l’importanza.

Cosa è successo nel 1996
Nel ’96, il magistrato Roberto Cavallone, titolare della seconda inchiesta, quella che vedeva indagato il fidanzato di Simonetta Raniero Busco, si accorse che mancavano dagli atti. Li fece cercare e scoprì che erano scomparsi tutti quello da luglio al novembre del 1990. In quel periodo, lavoravano per Aiag dei collaboratori che non sono mai stati interrogati nell’agosto del ’90. All’epoca, molti colleghi di Simonetta dichiararono di non aver mai visto né conosciuto la ragazza ma dai fogli firma risulterebbe il contrario.

“Sono convinto che il nome dell’assassino di mia figlia sia nelle carte”
Fino alla morte, il padre di Simonetta, Claudio Cesaroni ha sempre detto: “Sono convinto che il nome dell’assassino di mia figlia sia nelle carte”. Cosa intendeva dire? La sorella di Simonetta, Paola Cesaroni è stata ancora più chiara quando, pochi mesi fa ha rotto il silenzio dopo oltre dieci anni. “Era qualcuno che sapeva che mia sorella stava lì, in quell’ambiente”, ha raccontato di recente (fonte: Quarto Grado) colei che trovò il corpo dilaniato della ragazza quella stessa sera, sul pavimento di una delle stanze di quell’ufficio in via Poma dove era andata con il fidanzato e con il datore di lavoro di Simonetta, Salvatore Volponi, non vedendola rincasare.

Le raccomandazioni dei superiori
Negli atti di indagine si citano spesso le raccomandazioni rivolte a Simonetta dal ragioniere dell’Aiag Luciano Menicocci. Le avrebbe sempre chiesto di chiudersi a chiave dall’interno, dal momento che lui sarebbe andato in ferie, lasciando il mazzo inserito nella serratura, ma perché? Come raccontò ai magistrati Claudio Cesaroni nel 2003, Simonetta non veniva mai lasciata sola in quell’ufficio. “Per quel che mi diceva mia figlia, da quando Menicocci andò in ferie c’era Bizzocchi (titolare della ditta Reli Sas che aveva procurato l’incarico a Simonetta, ndr) a farle compagnia”. Perché c’era tanto timore nel lasciare la ragazza da sola, nonostante potesse chiudersi dall’interno? I suoi superiori temevano che qualcuno in possesso delle chiavi potesse farle del male? Nel corso delle indagini, i magistrati hanno cercato di capire chi potesse avere le chiavi dell’ufficio in cui fu uccisa Simonetta ma non è mai stato chiarito. Che le pareti di quell’ufficio nascondano un segreto inconfessabile sembra ormai innegabile.

L’avvocato Federica Mondani che assiste i Cesaroni ha più volte chiesto alla Procura di Roma di sottoporre a test del Dna le persone che ruotavano attorno a via Poma e che in quei giorni dell’agosto del 1990, avrebbero potuto essere presenti nella scala B, e di confrontare i risultati con i profili “ignoti” individuati e repertati sulla porta e sulla maniglia della stanza in cui fu assassinata Simonetta Cesaroni. Considerando quanto tempo è trascorso, oggi è impensabile ottenere risultati significativi da una indagine tradizionale. È quindi necessario procedere al rovescio: dalla traccia genetica si dovrebbe poi tentare d’intraprendere un percorso investigativo ordinario. Ma sembra che i magistrati romani per ora vogliano chiudere l’inchiesta, la parola finale spetta al giudice per le indagini preliminari.

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