Chi eleggere giudice della Consulta, cioè la Corte suprema, organo costituzionale e quindi di garanzia, che valuta se le leggi siano aderenti o meno alla Costituzione? Fratelli d’Italia e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni hanno in mente due nomi, secondo le ipotesi che circolano in Parlamento, e in entrambi casi non solo non si tratta di esperti di qualche settore né si tratta di giuristi di “area” come spesso succede ed è successo, come nel caso – per fare solo due esempi – dell’attuale presidente della Corte Augusto Barbera (orientamento centrosinistra) o dell’ex vicepresidente Nicolò Zanon (orientamento centrodestra) che ha finito il suo mandato alla fine del 2023. No, il governo e Palazzo Chigi a questo giro vogliono proprio trasferire direttamente due stretti collaboratori della premier Meloni al più importante organo di garanzia costituzionale. I nomi sono quelli di Carlo Deodato, segretario generale a Palazzo Chigi, e Francesco Saverio Marini, consigliere giuridico di Meloni, costituzionalista e soprattutto consulente nella redazione della riforma sul premierato.

Quest’ultimo accenno fa vedere, in traslucido, il movente della tanta fretta, della tanta energia e – si può dire – della tanta animosità con le quali la capa del governo affronta la votazione in Parlamento del giudice mancante tra i 15 della Consulta. Tanto da fare appello personalmente perché tutti i parlamentari di Fdi siano regolarmente presenti in Aula l’8 ottobre quando è in calendario l’elezione del giudice. E da infuriarsi e sfogarsi – come ha raccontato in questi giorni Giacomo Salvini sul Fatto Quotidiano – perché questo messaggio insistito ai deputati e ai senatori di Fratelli d’Italia era finito sui giornali.

Deodato e Marini sono naturalmente giuristi di alto livello, ma sarebbe singolare e inusuale (se non inedito) che un giudice arrivi alla Corte costituzionale direttamente dagli uffici del capo del governo. Deodato, 57 anni, come ha ricordato pochi giorni fa Paola Zanca sul Fatto, è presidente di sezione del Consiglio di Stato e ha una lunghissima carriera nella Pubblica amministrazione, che lo ha visto lavorare praticamente con tutti i governi dell’ultimo quarto di secolo, da Berlusconi a Prodi, da Monti a Letta, da Conte fino a Draghi e Meloni. Di Deodato – che è stato anche capo di gabinetto di Paolo Savona, sia nella breve parentesi da ministro sia alla Consob – si è parlato molto soprattutto nel 2015, quando fu il relatore della sentenza del consiglio di Stato che decise l’annullamento dei registri istituiti dai sindaci per trascrivere i matrimoni contratti all’estero che riguardavano in particolare persone dello stesso sesso. Una decisione che provocò gli entusiasmi dell’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano e che portava, tra le altre, la firma di Deodato. Ma non solo: poco dopo la diffusione della notizia, si scoprì che il giudice Deodato aveva rilanciato sul suo profilo Twitter link alle iniziative delle “Sentinelle in piedi” (movimento che si schiera contro il riconoscimento dei diritti lgbt) e postato messaggi contro la cosiddetta “educazione gender”.

Francesco Saverio Marini, 51 anni, è professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico a Tor Vergata, un giurista di esperienza e carriera accademica. Il padre Annibale, civilista, è stato giudice della Consulta e anche presidente, nel 2005. Annibale era vicino ad An e a Gianfranco Fini. Il figlio a Meloni, di cui è consigliere giuridico. Anzi, di più: è colui che ha stilato il disegno di legge sul premierato, quella che la presidente del Consiglio ha definito “la madre di tutte le riforme” e che è sostenuta in pratica da solo centrodestra di governo. L’urgenza dell’elezione, poi, secondo Repubblica, sarebbe dovuta anche al fatto che il 12 novembre è fissata l’udienza sulla questione di legittimità costituzionale della legge sull’Autonomia differenziata sollevata da quattro Regioni (Puglia, Toscana, Sardegna, Campania). Il governo al momento appare cieco di fronte a un apparente conflitto d’interessi di chi ha scritto una legge o dà consigli su altre leggi e poi è chiamato a giudicarne la costituzionalità qualche mese dopo. E nessuno degli interessati sembra aver alzato la mano per dire che forse è meglio saltare un giro, almeno.

L’appuntamento è quindi per l’8 ottobre, martedì, quando al centrodestra serviranno 363 voti, una maggioranza più che qualificata, di tre quinti del Parlamento riunito, per eleggere il giudice costituzionale. La maggioranza ha quei numeri anche grazie all’arrivo di parlamentari da vari gruppi dell’opposizione e in particolare Italia Viva e Azione, usati come taxi da qualche ex esponente del centrodestra che ora è tornato all’ovile.

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