“Quando si parla di donne ai vertici, ci si sente spesso in dovere di sottolineare che ‘sono davvero brave’. Vale solo per il genere femminile, ma non è che tutti gli uomini che siedono nei cda siano degli illuminati!”. Eva Desana è un’ordinaria di Diritto commerciale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino. È anche socia fondatrice di uno studio legale (“una donna su tre fondatori”, tiene a sottolineare), responsabile di un progetto di ricerca finanziato dal Miur sulla certificazione di genere, componente del Centro Interdisciplinare di Ricerche e Studi delle Donne e di Genere, e del Comitato scientifico di “Torino città per le donne”. Proprio attraverso quest’ultimo e l’Università di Torino, ha promosso il progetto “No women no board”. Un protocollo ambizioso di cui parlerà, insieme con la collega Mia Callegari, coordinatrice Forjus e Hub genere e sostenibilità sociale, alla seconda edizione del festival “Women in the city”, che si svolgerà a Torino tra il 9 e il 13 ottobre (qui il programma). “L’idea è quella di stimolare le società che non sono obbligate dalla legge a introdurre le quote, a prevederle su base volontaria e ad aderire ad alcune linee guida, volte a favorire un cambio di mentalità, assicurando politiche attente alla condivisione dei carichi familiari, alla conciliazione fra vita e lavoro e a promuovere la diversità e l’inclusione”.

Professoressa Desana, andiamo con ordine. Lei si occupa da oltre 10 anni del tema dell’equilibrio di genere negli organi di amministrazione e controllo delle società quotate e a controllo pubblico. In Italia, possiamo dire che un punto di svolta in questa direzione si è avuto nel 2011, con la legge Golfo-Mosca, che ha garantito una sostanziale parità di genere all’interno di quelle realtà?

Quella legge ha introdotto l’obbligo per tutte le società quotate e per quelle a controllo pubblico di nominare un consiglio di amministrazione “diversificato”, ovvero formato da uomini e donne e in cui al genere sottorappresentato – sino ad ora, con poche eccezioni, quello femminile – deve essere attribuita una quota di posti in consiglio: all’epoca la quota era di 1/3, portata poi a 2/5. Quindi sì, è stato decisamente un punto di svolta, anche rispetto al resto d’Europa, fatta eccezione come sempre per i Paesi scandinavi che ci hanno preceduto.

Fu, incredibilmente, una legge bipartisan…

Non solo: fu supportata dagli uomini! Il Parlamento riuscì a dare vita a una legge semplice: tre articoli soltanto ma dalle conseguenze dirompenti. Ricordo ancora le facce incredule di molti uomini che sedevano allora nei cda. Le quote hanno una durata limitata nel tempo, ma dai miei calcoli dovrebbero rimanere in vigore fino al 2038. Dieci anni dopo la Golfo-Mosca, nel 2021, sono state introdotte le quote nelle banche e nelle società assicurative, stavolta senza limiti temporali. Nel 2022, dopo un cammino faticoso, è stato finalmente varata dall’Ue una direttiva di analogo tenore, la cosiddetta “Women on board”, che imporrà agli Stati membri, dal 2026, di assicurare che nelle società quotate (fatta eccezione per le PMI) almeno il 40% dei posti di amministratore non esecutivo o il 33% di quelli di amministratore esecutivo e non esecutivo siano ricoperti da appartenenti al sesso meno rappresentato.

Quindi almeno per l’Italia possiamo dire che è tutto a posto? Basta ciò che è stato realizzato?

Ovviamente no. Dai rapporti della Consob, emerge che il campo di applicazione della normativa è limitato: le società non quotate, anche di dimensioni medio-grandi, non essendo soggette alla legge sono capaci di nominare cda esclusivamente maschili. Mi viene in mente il caso di Atlantia, che nel 2022 – dopo essersi delistata – aveva nominato un consiglio con ben undici uomini. Grazie alla mobilitazione delle associazioni, almeno siamo riusciti a far introdurre una donna. Ma, ripeto, è un discorso che vale per molte aziende.

Come per altri ambiti, anche questo rientra nella cultura maschile e maschilista di cui siamo permeati.

Quando si parla di donne, bisogna sempre aggiungere che si tratta di persone “competenti e preparate”, come se tutti gli amministratori uomini lo fossero. Al di là del fatto che rappresentiamo la metà della popolazione – ci saranno donne capaci tra questa metà! –, non dimentichiamoci che per le quotate c’è anche il controllo della Vigilanza, ogni candidatura presentata viene vagliata.

E quindi non è meramente una questione quantitativa…

L’ingresso delle donne nei cda ha innalzato il livello medio dei titoli di studio e abbassato l’età media.

Ma allora è possibile che, nel 2024, bisogna continuare a imporre le quote?

Se avessimo dovuto attendere un cambiamento culturale, saremmo ancora con i cda di soli uomini… Le quote non mi entusiasmano, ma ce n’è bisogno. E non soltanto per il genere femminile: penso alle quote generazionali o alla diversity in senso ampio. È un discorso che interessa tutti: servirebbe la parità retributiva o l’equilibrio di genere anche in alcuni mondi, come quello della scuola, che invece sono appannaggio femminile.

Dunque, come diceva, non è affatto tutto a posto. In che modo il protocollo No women no board può aiutare?

Il protocollo spinge le società che non sono tenute agli obblighi di legge ad adottare le stesse linee guida; sensibilizza alla parità di genere, promuovendo modelli di leadership femminile; partecipa all’elaborazione di programmi e iniziative che favoriscano il rientro al lavoro delle donne e la parità tra i periodi di congedo parentale; favorisce la conciliazione lavoro/casa. Vorremmo che fosse assunto su base volontaria. Sarebbe importante. Si parla tanto di sostenibilità: uno dei pilastri della sostenibilità è proprio l’inclusività. E ricordiamoci che l’obiettivo 5 dell’agenda Onu 2030 prevede la parità di opportunità tra donne e uomini nello sviluppo economico, la rappresentanza nei processi decisionali e l’uguaglianza di diritti a tutti i livelli di partecipazione.

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