In esame alla Camera, il ddl lavoro del governo ha già incassato l’approvazione dell’articolo 19, quello che introduce una forma di dimissioni implicite per assenza ingiustificata. Di fronte a un’assenza prolungata di almeno 15 giorni, il datore può comunicarlo all’Ispettorato del lavoro e, se questo non interviene, considerare interrotto il rapporto per volontà del dipendente. La norma modifica la legge 151 del 2015, il Jobs Act, che aveva introdotto l’obbligo di comunicazione formale per le dimissioni, rendendo illegali le “dimissioni in bianco“, quelle firmate da lavoratrici e lavoratori al momento dell’assunzione e compilate poi dal datore qualora volesse liberarsi di loro. Un licenziamento mascherato da dimissioni volontarie, insomma. Da qui il paragone, lanciato dalle opposizioni, con la norma appena approvata dalla maggioranza di governo, che comprime le garanzie di fronte ai possibili abusi. Anche se l’assenza è stata causata dal datore, infatti, sarà il lavoratore a doverlo provare, a dimostrare che non si è dimesso. Pena la perdita delle tutele previste invece in caso di licenziamento, compreso l’accesso alla Naspi, l’indennità di disoccupazione. La norma sarebbe infatti un tentativo di arginare il fenomeno delle assenze prolungate col solo scopo di farsi licenziare per accedere alla Naspi. Una prassi già censurata da alcuni tribunali e tuttavia sono in tanti a ritenere che la cura sia peggio del male, perché rischia di trasformare in dimissionario chi di fatto è stato cacciato.
Vista la preoccupazione destata dal provvedimento, è il caso di capire meglio di cosa parliamo mettendo da parte la dimensione astratta di articoli e commi. Chi lavora in aziende di grandi dimensioni o più semplicemente in quelle dotate di un organigramma e una gerarchia, dove esistono gli ordini di servizio, ha meno da preoccuparsi. Ma organigrammi e gerarchie sono costi e quando le dimensioni aziendali si riducono, ad aumentare è l’informalità dei rapporti. Scambi su Whatsapp, messaggi audio, se non semplici comunicazioni verbali sono ormai all’ordine del giorno, e con la nuova legge potrebbero costare caro. Si è già scritto dell’ipotesi in cui, magari di fronte a legittime rimostranze, il datore allontana il lavoratore con un semplice “domani stattene pure a casa”. Chi obbedisce e aspetta, chissà, che il datore cambi idea, rischierà di ritrovarsi dimissionario anche se non ha mai inteso lasciare il lavoro“. Sarebbero bastati 5 giorni, poi passati a 15 grazie a un emendamento delle opposizioni che invece non sono riuscite a far passare l’obbligo di verifica dell’Ispettorato, il quale non deve ma “può verificare” la comunicazione del datore. Il giuslavorista Bartolo Mancuso, che ha condiviso col Fatto le implicazioni costituzionali della riforma, invita a non sottovalutare gli aspetti psicologici di certe dinamiche: “Non è raro che dipendenti esasperati non vogliano rientrare, che una volta allontanati abbiano addirittura paura di tornare sul posto di lavoro”. O peggio, “che si convincano di essere loro a non voler lavorare quando è vero il contrario, solo che vogliono un lavoro giusto, buono”. Tutti casi in cui la nuova legge renderà ancora più vulnerabili i lavoratori.
Mancuso è avvocato del lavoro nella Capitale: “Esiste a Roma un’economia informale più grande di quanto si pensi. Mi è stato segnalato il caso dei lavoratori di un appalto del trasporto pubblico: turni che da un giorno all’altro non vengono comunicati, nessun segnale dall’azienda che ha in mano l’appalto, lavoratori a casa”. Con la nuova legge, “dopo 15 giorni potranno essere accusati di essersi dimessi”, perdendo garanzie e tutele. Si tratta spesso di lavoratori precari se non poveri, che finiranno per subire l’ingiustizia, per farsene una ragione anche se non c’è. “Nelle piccole aziende la relazione tra datore e lavoratore si svolge quasi esclusivamente in modo orale“, spiega. Chi aspetta la comunicazione delle giornate di lavoro e dei relativi turni farà meglio a tenere il conto dei gironi di attesa. Ma vale anche per le ferie, spesso accordate oralmente. Al rientro, il lavoratore potrebbe scoprire di non essere mai stato in ferie, ma di essersi dimesso volontariamente. A lui provare il contrario. Che fare? Pretendere che di ogni cosa ci sia traccia scritta. Quanto all’assenza dal posto di lavoro, suggerisce il legale, “in ogni situazione di incertezza bisogna sempre offrire la propria disponibilità a lavorare per chiarire che non ci si è dimessi”. In altre parole, chiedere di avere i turni, di tornare al lavoro. “Ovviamente con una comunicazione scritta, meglio se tracciata. Poi si fa quel che si può e un messaggio al datore per dire “mi dai i turni” è sempre meglio di niente”. Del resto, se l’intenzione è quella di cacciare il lavoratore, di fronte a un’assenza davvero ingiustificata il datore può sempre farlo, ma servirà una contestazione disciplinare, un’interlocuzione alla presenza di un rappresentante sindacale, con l’onere della prova a carico dello stesso datore. Tutto nero su bianco, dunque. Una soluzione banale che però non può essere un sollievo. “Ogni volta che burocratizzi ulteriormente il lavoro, rendi più debole il debole“, avverte Mancuso. Che chiarisce: “Non è un caso che nel nostro ordinamento il recesso del datore dal rapporto non sia libero, ma debba sempre essere giustificato. Al contrario il recesso del lavoratore è sempre libero”.