Cultura

Trieste, il Male e un nazifascista di nome “Bambino”: lo scrittore Marco Balzano racconta in esclusiva la genesi del suo nuovo romanzo

di Marco Balzano

A Trieste tutti lo conoscono come “Bambino”, ma è stato la camicia nera più spietata della città. “Ho ucciso e fatto uccidere. Ho sempre cercato di stare dalla parte del più forte e mi sono sempre ritrovato dalla parte sbagliata”. Mattia Gregori è il protagonista del nuovo romanzo di Marco Balzano, “Bambino” appunto, in uscita l’8 ottobre per Einaudi. Un’opera che indaga non solo un luogo di confine – quella città che nell’arco di pochi anni si è ritrovata sotto fascismo, nazismo e, per poche settimane, dittatura comunista – ma soprattutto il confine dell’animo umano. “Quali ragionamenti segue la mente di un’anima perduta?”, si chiede lo scrittore, che in questo racconto scritto per il Fatto quotidiano spiega la genesi del romanzo.


Da anni avevo in mente di scrivere una storia sul confine orientale, perché nessun territorio come Trieste ha visto avvicendarsi con brutale violenza, e senza soluzione di continuità, fascismo, nazismo e – sebbene per poche settimane – regime comunista. Volevo che il protagonista fosse un uomo nato ai primi del secolo, cosicché attraversasse ogni periodo, caricandosi sulle spalle tutte le vicende di questa Storia da sempre incandescente. E volevo che finisse per affacciarsi su un abisso, non solo figurato, perché, forse, è a un passo dalla morte che si pronunciano le parole più importanti e che tornano davanti agli occhi le immagini più nitide. Omero, del resto, dei dieci anni della guerra di Troia, non ci racconta che gli ultimi giorni, quando le scelte sono fatali, le confessioni testamentarie.

Che la Storia ci tocchi, che ogni essere vivente ne riceva minacce e impulsi, mi pare abbastanza evidente. Ma nei miei romanzi la Storia è un punto di partenza, mai di arrivo. M’importa di più rovesciare la prospettiva e provare ad analizzare come ciascuno di noi la affronti e la attraversi: con quali convinzioni e paure, con che inclinazione al bene e al male, se in attacco o in difesa dagli altri e da sé stesso. M’interessano, insomma, l’aspetto politico e la relazione che, nelle zone di frontiera, sono sempre amplificate. Da questo punto di vista, Trieste è tanto reale quanto simbolo di tutte le terre di confine oggi più che mai travagliate dalle guerre.

È questo il grumo di intenzioni e sfide da cui si è sviluppato Bambino, anche se le cose stavolta sono andate in maniera piuttosto originale rispetto ai romanzi precedenti. Quando volevo cominciare a scrivere pensavo sempre al panorama che si gode da Miramare, che abbraccia terre unite dalla geografia ma confinanti in modo ostile. Mi mancava una situazione chiara di partenza, mi mancavano i lineamenti del mio protagonista: non avevo altro che quel paesaggio ampio e struggente, che sono tornato a rivedere.

Marco Balzano @thomaschiappa2024

Quella stessa sera ho presentato Quando tornerò in una libreria triestina indipendente. Era una serata calda, stavamo all’aperto. A incontro già iniziato si presenta un uomo sui quarant’anni, lo precedono i rombi della sua moto, una Honda di grossa cilindrata che ha parcheggiato davanti alla vetrina. Resta in piedi, ascolta attentamente col casco sotto il braccio, con una mano si aggiusta i capelli spettinati e, alla fine dell’incontro, viene a presentarsi e a farsi autografare il romanzo. Chiude il libro, mi fissa e se ne esce con una frase che ogni scrittore si sente ripetere un numero imprecisabile di volte: “Dovresti scrivere la storia della mia famiglia” e senza darmi il tempo di fermarlo, attacca a parlare di suo nonno e degli anni della guerra. Ivan, così si chiama, ha uno sguardo penetrante e deciso: “È una storia importante, che riguarda molte persone, vorrei venirti a trovare per raccontartela, tu sei lo scrittore giusto per farne qualcosa”. Ho riaperto il libro e gli ho segnato l’indirizzo mail nell’ultima pagina. Poche ore dopo mi ha comunicato il giorno in cui sarebbe venuto a Milano.

È arrivato da Trieste un martedì di dicembre e ancora i rombi della sua Honda lo hanno preceduto. L’ho portato a pranzo in trattoria. Pochi convenevoli, poi ha tirato fuori dallo zaino una cartella verde di plastica da cui ha iniziato a estrarre fogli, fotografie, documenti di suo nonno Pietro. Ivan e sua sorella sono cresciuti con quest’uomo e hanno saputo della guerra che aveva combattuto in Albania, degli anni difficili delle dittature, dell’ostinazione a non emigrare perché Pietro lontano da Trieste non ci voleva stare. Ma Ivan non si era fatto più di quattrocento kilometri in moto – “nemmeno una sosta per pisciare, Marco” – soltanto per mostrarmi delle carte. Voleva confidarmi che dopo la morte di suo nonno ha scoperto che era stato un delatore, uno che da fascista si è fatto nazista e da nazista fiancheggiatore dei titini. Non aveva esitato a consegnare i padroni di prima a quelli presenti ogni qualvolta questi cambiavano, per ricavarne denaro o solo per sopravvivere o per proteggere la sua famiglia o per tenere alla larga i molti nemici che nel tempo aveva accumulato. Sua moglie, la nonna di Ivan, al funerale non ha nemmeno pianto. Era l’unica in famiglia che sapesse questa storia: un giorno l’ha raccontata a suo nipote per liberarsene. Ivan aveva studiato quelle carte, inorridendo per ciò che dimostravano e rimanendo basito al ricordo della dolcezza e del senso di protezione che sempre gli aveva trasmesso suo nonno Pietro, di cui mai avrebbe sospettato nulla di simile. “Non ho nemmeno una riga a cui aggrapparmi per provare a comprenderlo” ha detto richiudendo la cartelletta e ordinando per entrambi il caffè, “Eppure era buono, ti giuro, ci voleva un bene che non so dire”.

Il nonno lo chiamava sempre bocia, “bambino”, mai per nome, e questo all’inizio a Ivan piaceva, ma poi non più, specie dopo che era diventato un metro e novanta, proprio come Pietro. E come Pietro, Ivan è biondo, magro, con un fisico nervoso che lascia intravedere i muscoli sotto la camicia. Per me invece funzionava quel soprannome, “Bambino”: lo immaginavo affibbiato a un personaggio feroce. E quando ho visto in una fotografia che il nonno era sempre perfettamente sbarbato, ho deciso subito che Bambino fosse glabro di natura e che per questo gli squadristi lo schernissero con quel nomignolo.

Dopo aver salutato Ivan sono andato in biblioteca. Sono uscito con un piccolo libro che ha avuto un ruolo importante per questa storia: Via San Nicolò 30. Traditori e traditi nella Trieste nazista di Roberto Curci (il Mulino). Delatori ne sono esistiti e ne esistono ovunque, ma nella Trieste di quegli anni erano veramente numerosi.

Forse qualcuno potrebbe credere che abbia scritto un romanzo di questo genere per la possibilità di raccontare le foibe, per approfittare del ventesimo anniversario dell’istituzione del Giorno del Ricordo… No, non me ne importa niente. E me ne sono deliberatamente tenuto lontano tanto nelle intenzioni quanto nella scrittura. Le foibe ci sono – come potevano mancare in una storia che copre un arco temporale che va dagli anni Venti al 1946? – ma quello che si racconta è la parabola di vicende e scelte che hanno costellato la vita di un uomo ora spietato, ora impaurito, sempre assolutorio verso se stesso per colpa di una perdita e di un inganno subìti quando era – appunto – bambino. La menzogna in cui ha vissuto basta ai suoi occhi per dirne a sua volta e per avercela col mondo.

La ragione sottesa a questo romanzo, in verità, l’avevo in mente già prima di mettermi al computer. A volte è solo questione di aspettare la storia giusta: prima di Resto qui desideravo scrivere in prima persona con la voce di una donna. Allo stesso modo, ben prima di Bambino, avevo in mente di indagare non più le vittime, coloro che si ritrovano schiacciati da forze indomabili o da eventi imprevedibili, ma un carnefice. La domanda a cui scrivendo questo romanzo ho cercato di dare risposta, la mia urgenza, è la stessa sempre viva in Dostoevskij, Camus, Hannah Arendt: che umanità pulsa in chi sceglie il male? Quale dolore prova chi lo commette e lo perpetra? Quali ragionamenti segue la mente di un’anima perduta? E quanto di lui vive in ciascuno di noi? La vendetta, il rancore, lo sbaglio, il perdono, formano un nodo indistricabile in questa storia e non è stato affatto facile silenziare il giudizio.

Da un punto di vista narrativo tutto ciò si incarna nell’atteggiamento prevaricante di Mattia Gregori, detto Bambino, uno squadrista della prima ora, che si nasconde nel branco per aggredire e scansare le fatiche del lavoro e della guerra, imboccando deliberatamente la scorciatoia della violenza. L’atteggiamento del branco si ritrova con facilità in tutto il fascismo del Ventennio – ma anche in quello di oggi che veste altre divise, maneggia altri strumenti, sventola altri slogan – ma si è consumato con una brutalità senza pari nel cosiddetto “fascismo di confine”. La protagonista di Resto qui, altoatesina, ne è una vittima; sul confine giuliano ho incontrato un carnefice: lo scavo umano, però, resta lo stesso.

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