Il 7 ottobre 2023, al festival musicale Supernova e per le strade dei kibbutz al confine con la Striscia di Gaza non sventolavano bandiere verdi con impressa la Shahada, non giravano indisturbati i corpi d’élite incappucciati con la fronte coperta dalla bandana del Movimento Islamico di Resistenza. Quel giorno, Hamas non si è mostrata al mondo come organizzazione partitica o militare, come un’entità che aspira a diventare parte integrante, se non trainante, dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), ma con il volto della rabbia di un intero popolo. Il 7 ottobre segna il confine tra un ‘prima’ e un ‘dopo’ nella storia di Israele, del conflitto israelo-palestiense, ma anche di quella dei miliziani che governano la Striscia di Gaza. La ferocia sprigionata in quelle ore contro civili inermi è un punto di passaggio fondamentale nel processo di vita di Hamas: quel giorno ha svestito (per sempre?) i panni di partito ed è tornato a essere un’organizzazione armata che combatte anche usando il terrorismo.

Alluvione Al Aqsa“, non c’era nome più appropriato per descrivere l’operazione di un anno fa oltre i confini fino ad allora considerati invalicabili della prigione a cielo aperto di Gaza. La mattanza del 7 ottobre è stata l’attacco più sanguinoso nella storia di Israele e di Hamas. E a portarlo a termine non è stata una milizia che si è mossa in maniera compatta, marziale, ma migliaia di persone che si sono lanciate contro obiettivi prefissati, come pirati all’assalto di un veliero, forzando il blocco israeliano intorno all’enclave per terra, mare e cielo, utilizzando deltaplani, scooter, bulldozer e camion. Circa 1.200 i morti, 250 le persone portate in ostaggio nella Striscia.

Che qualcosa all’interno del movimento stesse cambiando era evidente da anni, ma il 7 ottobre ha dimostrato come nel partito, guidato da un membro integralista ma dialogante come Ismail Haniyeh, la frangia più radicale abbia preso il sopravvento. A dare il via ad Alluvione Al-Aqsa fu l’allora capo delle Brigate Ezzedin al-Qassam, il braccio armato di Hamas, Mohammed Deif, ma fin da subito è stato chiaro che la mente dietro al massacro fosse un’altra: quella del leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar.

Questi due nomi dicono molto di come stavano cambiando e come cambieranno gli equilibri dentro al movimento. Il 7 ottobre ha dimostrato quanto l’ala armata, guidata da Deif, e il ‘distaccamento’ di Gaza, con a capo appunto Sinwar, abbiano assunto un ruolo predominante sul resto dell’organizzazione. E di episodi che lo confermano, in questo anno di guerra, ce ne sono stati più di uno. Innanzitutto un approccio intransigente, quasi quanto quello di Israele, in sede di trattative che ha portato solo a limitatissime tregue nella Striscia di Gaza, senza mai arrivare all’apertura di un vero tavolo di trattativa. Una conseguenza che ha origine in un radicalismo che, va ricordato, è bipartisan. Proprio il governo di Netanyahu, con la sua reazione sproporzionata contro la popolazione palestinese, ha combattuto il radicalismo con il radicalismo. Il risultato è stato altro radicalismo: Netanyahu, inizialmente assediato dalle richieste di dimissioni della piazza, oggi vola al 38% dei consensi, mentre Sinwar ha definitivamente preso il controllo del partito, diventandone il leader dopo l’uccisione di Haniyeh.

L’omicidio del capo dell’organizzazione orchestrato dall’intelligence israeliana mostra come il dialogo sia per ora una possibilità remota. Israele sa di aver eliminato uno dei leader più aperti a un confronto e la sua uccisione ha rappresentato un messaggio chiaro alla leadership di Hamas: non abbiamo interesse a rapportarci con voi. Il Politburo del movimento islamista ha reagito di conseguenza, nominando nuovo capo proprio l’artefice del 7 ottobre. Se a questo si aggiunge che Hamas e il Jihad Islamico hanno rivendicato il fallito attacco suicida dell’agosto scorso a Tel Aviv, con un’apparente ripresa della stagione degli attentati kamikaze abbandonata ormai da metà degli anni Duemila, si capisce quanto questo ritorno alle origini del movimento sia in fase avanzata.

Hamas e i suoi vertici sanno bene che le sofferenze di oggi faranno nascere i militanti di domani. La violenza sprigionata da Israele in un anno di guerra ha portato consensi sia a Netanyahu sia alla nuova leadership di Hamas. La sciagura del 7 ottobre garantirà anche al movimento armato nuovi combattenti per la resistenza contro lo Stato di Israele.

X: @GianniRosini

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

Un anno dal 7 ottobre e nessuna prospettiva di una fine della guerra

next
Articolo Successivo

7 ottobre, un anno dopo. Israele resta ostaggio del “dead man walking” Netanyahu: con le guerre a Hamas e Hezbollah è in testa ai sondaggi. E ora c’è l’Iran

next