Il 4 novembre gli si erano accampati sotto casa a Gerusalemme e davanti all’ufficio, nella cittadella della Difesa di Kirya a Tel Aviv: “Ora! Devono tornare ora!”, urlavano contro le sue finestre. Secondo un sondaggio di Canale 13 per il 44% del paese era il responsabile del disastro e l’80% chiedeva le sue dimissioni. Lui, a 4 settimane dall’inizio dei raid su Gaza, non riusciva più che a mettere in fila qualche sillaba di rabbia sulla sorte dei 241 ostaggi. “L’unica a dimettersi sarà Hamas“, prometteva. Ma lo sapeva bene: né le accuse di corruzione, né la riforma della giustizia che da mesi portava la gente in piazza avevano potuto tanto: politicamente era un dead man walking, a breve destinato a scendere muto nel gorgo che il flagello del 7 ottobre aveva aperto sotto il suo governo. Invece un anno dopo Benjamin Netanyahu è ancora lì: ha in mano un delicato gioco di leve con cui tiene in ostaggio Israele e sta cambiando fisionomia al Medio Oriente. Forse al mondo intero.

E’ lui stesso, “Bibi l’americano”, il perno dell’intero gioco. Prima del 7 ottobre Israele scendeva in piazza da anni per i casi di corruzione e “abuso di fiducia” di cui è accusato: in cambio di favori avrebbe ricevuto migliaia di dollari in gioielli, sigari e champagne da due amici miliardari, e per garantirsi buona stampa ha avuto un occhio di riguardo per i proprietari di due quotidiani. Mentre la magistratura cerca di processarlo, lui muove la prima leva: mette mano a una riforma della giustizia che aumenta i poteri del governo nella nomina dei giudici e a limita quelli della Corte suprema, l’unica istituzione in grado di controbilanciare l’esecutivo, dinanzi alla quale il processo potrebbe arrivare. Invece ad arrivare è il massacro del 7 ottobre e lì Netanyahu muove la seconda leva: avvia l’operazione militare su Gaza, alla Corte distrettuale di Gerusalemme chiede diversi rinvii motivati dalla “situazione della sicurezza nel paese” e a luglio ottiene una sospensione del processo fino al prossimo 2 dicembre.

La guerra a Hamas, quindi, è la sua assicurazione sulla vita. Però è lunga e complicata. E i risultati tardano ad arrivare: il 30 novembre 2023 151 ostaggi, chissà se vivi o morti, restano nei tunnel di Hamas e il 9 dicembre Canale 13 pubblica un sondaggio secondo cui 7 israeliani su 10 vogliono ancora che si dimetta. Bibi è in una morsa. Da un lato le famiglie lo accusano di avere le mani sporche del sangue dei loro cari uccisi e chiedono la tregua necessaria a riportarle a casa i sopravvissuti, dall’altro gli alleati di governo gli impongono di non scendere a patti e andare ancora più a fondo nella Striscia. E’ il lato della tenaglia che Bibi teme di più, perché a dicembre 2022 per formare l’esecutivo si era messo in mano ai campioni dell’ultradestra nazionalista Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir.

Il primo, ministro delle Finanze, è quello che considera “giustificato e morale” lasciar morire di fame 2 milioni di civili a Gaza. Il secondo, responsabile della Sicurezza, a suon di passeggiate stile Ariel Sharon punta a togliere ai musulmani il diritto di pregare sulla Spianata delle Moschee sancito da accordi internazionali. Tutti e due tengono in ostaggio Bibi. Dall’inizio delle trattative con Hamas mediate da Usa, Egitto e Qatar l’avvertimento al premier non è mai cambiato: “Se accetti il cessate il fuoco lasciamo il governo”. E Bibi obbedisce. Anzi, raddoppia: il 3o luglio un raid uccide a Beirut Fuad Shukr, numero 2 di Hezbollah, e il 31 a Teheran salta in aria Ismail Haniyeh, leader politico di Hamas. Nel frattempo a Gaza le Israele Defense Forces fanno strame di miliziani e civili.

Così il volano comincia a girare in senso contrario. A fine maggio secondo un sondaggio di Canale 12 Netanyahu torna a essere il premier preferito dagli israeliani (36%) superando il rivale Benny Gantz al 30%. Ora il vento gli soffia forte in poppa. L’Onu non può più nulla e Joe Biden, in scadenza di mandato e in piena campagna elettorale, non ha la forza né la voglia di fermarlo. Così Bibi capisce che ha una possibilità: questa è la volta buona, pensa, per finire il lavoro. Sposta il governo ancora più a destra accogliendo l’ex rivale Gideon Saar: l’uomo che una settimana dopo il 7 ottobre teorizzava che “chiunque inizi una guerra contro Israele deve perdere territorio” avrebbe dovuto prendersi la Difesa al posto di Yoav Gallant, colpevole di aver chiesto la firma del cessate il fuoco, ma deve accontentarsi di un posto nel gabinetto di sicurezza. E subito dopo muove la terza leva: attacca il Libano di Hezbollah, prorogando ad libitum la polizza che lo tiene in sella, sapendo che colpire il “Partito di Dio” significa chiamare in causa l’Iran.

Il gioco funziona. Dopo quasi 42mila morti a Gaza tra miliziani e civili, raid quotidiani sul Beirut che sono valsi l’uccisione di Hasan Nasrallah e un’invasione di terra nel sud del paese, i sondaggi danno ragione a Bibi: quello diffuso il 29 settembre da Channel 12 dice che Netanyahu è salito al 38% e se domani si andasse al voto il Likud penderebbe 25 seggi su 120, diventando il partito più grande della Knesset. “Gli scontri regionali sono positivi per Netanyahu – ha spiegato alla Cnn l’analista Dahlia Scheindlin -. Sono chiaramente il fattore che ha contribuito alla sua ripresa”. Il vento, quando c’è, va cavalcato, così l’esercito fa trapelare che per il 7 ottobre espanderà le operazioni di terra a Gaza e che l’attacco all’Iran in risposta alla selva di missili di martedì scorso ormai è “imminente”.

Il volano gira a pieno regime e Bibi sa di non potersi fermare. Perché se a un’organizzazione irregolare come Hamas o Hezbollah per poter dire di aver vinto la guerra basta sopravvivere, a uno Stato no: deve arrivare alla completa distruzione del nemico. Hamas invece non è completamente debellata, e non lo sarà mai se gli interventi si limitano a bombe e missili. E mesi di raid potranno anche indebolire Hezbollah, ma da qui a renderla completamente inoffensiva ce ne passa. Politicamente, quindi, Netanyahu continua a essere un dead man walking, e lo sarà comunque anche dopo perché prima o poi la guerra finirà. Ma se smette di farla è perduto. E adesso tra gli obiettivi disponibili per restare in sella gliene resta solo uno, il più grande, il bersaglio grosso: l’Iran.

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