Se la tempesta Boris ha flagellato diversi Paesi europei, ancora alle prese con una drammatica conta dei danni (e delle vittime), c’è una città che non si è fatta trovare impreparata. Vienna ha resistito, anche se inondata da precipitazioni record, come tante altre città dell’Austria, ma anche di Romania, Repubblica Ceca e Polonia. Delle ventidue vittime accertate, cinque hanno perso la vita in Austria (in Bassa Austria la situazione più drammatica), ma nessuna a Vienna, dove è caduta una quantità d’acqua pari a cinque volte la media di settembre. Il fiume più piccolo della capitale, il Wienfliuss, ha raggiunto i binari di una metropolitana con livelli che non si vedevano da circa un secolo, ma rispetto alla minaccia del Danubio la città ha retto, perché può contare su un sistema di protezione che ha una lunga storia. “Se non ci fossero state le opere realizzate nei decenni, i danni sarebbero stati molto più ingenti, per non parlare delle possibili vittime” spiega a ilfattoquotidiano.it Günter Blöschl, idrologo e direttore dell’Istituto di Ingegneria Idraulica e Gestione delle Risorse Idriche dell’Università tecnica di Vienna. Blöschl è uno dei massimi esperti mondiali di piene fluviali. Con il suo team, ha lavorato al sistema di previsione idrologica, contribuendo a definire la strategia di gestione del rischio di inondazioni dell’Austria, che tanto può insegnare all’Italia, dove a un anno dall’inferno dell’Emilia-Romagna pare non essere cambiato nulla.
Come Vienna gestisce il rischio Danubio – Una strategia che ha radici profonde, ma che iniziò in modo organico e rivoluzionario con la regolazione del Danubio avviata nel 1870. Prima di allora, il fiume scorreva attraverso zone umide sulla riva a est dell’attuale corso, mettendo a rischio numerosi villaggi. “Dopo l’alluvione del 1862, che distrusse gran parte della città – racconta Blöschl – si decise di scavare un letto nuovo di 7 chilometri di lunghezza e 280 metri di larghezza, per accorciare l’arco esistente del Danubio. Il vecchio letto del fiume (il Vecchio Danubio, ndr) fu tagliato e la maggior parte fu riempita”. I lavori furono eseguiti con le stesse macchine utilizzate per la costruzione del Canale di Suez. Tutto questo portò a un Danubio con un letto principale e una golena di 450 metri di larghezza destinata ad area di straripamento. “La regolazione si dimostrò particolarmente utile durante alcune alluvioni di fine secolo, in particolare quella del 1899, con una portata di 11mila metri cubi di acqua” aggiunge l’idrologo. Un’altra data, però, scosse la città: la piena del 1954. Si iniziò a stimare quale potesse essere il massimo pericolo di piena e la risposta fu trovata in quanto accaduto a Vienna nel 1501, durante un evento con una portata di 14mila metri cubi al secondo di acqua. “La probabilità che si superi questa portata in un anno, è pari a uno su 5mila ma, proprio basandosi su questo limite, si innalzarono i margini e, tra il 1972 e il 1988, ci fu una seconda regolazione del Danubio” spiega il professor Blöschl. Fu creato un canale artificiale parallelo (Neue Donau, Nuovo Danubio), separato dal Danubio principale dalla Donauinsel (isola del Danubio), una lingua di terra lunga 21 chilometri, realizzata con i detriti degli scavi del Nuovo Danubio.
L’insegnamento di Vienna: costa meno prevenire – Normalmente, il Neue Donau è chiuso da dighe ma, quando il livello dell’acqua si alza, le dighe vengono aperte e l’acqua in eccesso defluisce, riducendo la pressione sul Danubio principale. Questo sistema ha permesso a Vienna di affrontare con molti meno danni, rispetto anche ad altre città e Paesi europei, le alluvioni del 2002, del 2013 (con una portata di 10.500 metri cubi di acqua), del 2021 (11mila metri cubi) e quella di quest’anno (oltre 10mila). “Il Paese ha investito molto. In questi casi non si parla di una misura, ma di una combinazione di interventi: le costruzioni di ingegneristica, dagli argini alle casse di espansione per i fiumi più piccoli (e sono migliaia quelle costruite in Austria), i piani urbanistici che dicono dove si può o non si può costruire, le frequenti esercitazioni organizzate a Vienna e un sistema di previsione idrologica che, lo dico con orgoglio, ha funzionato ed ha evitato danni ingenti e vittime, prevedendo quelle che sono state le effettive precipitazioni”. Quanto costa tutto questo? “In media, l’Austria ha investito circa 60 milioni di euro all’anno solo per le misure di protezione dalle inondazioni, molto poco rispetto a quelli che potrebbero essere i danni” commenta Blöschl. Quelli stimati per l’alluvione del 2002 ammontano a circa 3 miliardi di euro, per quella del 2013 non si superano i 900 milioni di euro, proprio perché il lavoro di protezione non si è mai fermato. “Senza questi continui investimenti, i danni sarebbero potuti arrivare a oltre 5 miliardi di euro” spiega l’esperto. Il ministro delle Risorse idriche, Norbert Totschnig, ha spiegato che, solo per l’ingegneria idraulica, sono stati stanziati circa 106 milioni di euro nel 2022 e circa 120 milioni nel 2023, mentre nel 2024 si investiranno circa 124 milioni di euro in progetti di protezione dalle inondazioni. Per Vienna, nel 2023, è stato investito circa un milione di euro. E si pensa al futuro: “Non possiamo escludere che avvenga un evento di maggiore portata. Durante l’alluvione di settembre – spiega Blöschl – le temperature erano basse e in montagna ha nevicato, quindi una parte della precipitazione non è arrivata sotto forma di pioggia”. Cosa sarebbe accaduto se non avesse nevicato? “La piena sarebbe stata più alta, probabilmente fino ad arrivare a quota 14mila metri cubi”. Blöschl, al quale è stata conferita la laurea ad honorem dell’Alma Mater di Bologna, conosce bene i rischi di alcuni territori italiani.
L’Italia tra opere del passato e nuove emergenze – Proprio a Bologna, sono diversi i progetti universitari attivi per contribuire alla ricerca sulle piene fluviali. D’altronde, l’Emilia Romagna continua a pagare un prezzo carissimo. “Il problema fondamentale delle piene fluviali è il fattore sorpresa, che ci coglie impreparati, rendendo gli impatti più devastanti. Certamente Vienna è un esempio di come si può intervenire” spiega a ilfattoquotidiano.it Alberto Montanari, professore di Costruzioni Idrauliche, marittime e Idrologia dell’Università di Bologna. Montanari coordina la linea di ricerca sugli impatti dei cambiamenti climatici, in capo a UniBo, nell’ambito del partenariato esteso ‘Return’, finanziato dal Pnrr. “Anche in Italia sono state fatte regolazioni di fiumi, per esempio per l’Arno o le casse di espansione realizzate in Veneto – aggiunge – ma manca una strategia operativa trasparente e oggettiva. Non tutte le alluvioni sono uguali e sono molto diversificati gli ambienti a rischio dal punto di vista idrologico-ambientale e socio-economico”. Non esiste, quindi, una ricetta che valga ovunque ma, mentre se ne discute, l’Italia si fa cogliere di sorpresa. Montanari coordina anche un progetto, finanziato dal Fondo Italiano per la Scienza nell’ambito del programma Advanced Grant, che si occupa proprio delle strategie per ridurre il fattore sorpresa nei disastri naturali, in particolare legati a piene e magre. “Occorre individuare le aree a rischio, definire il tipo di rischio e, quindi, stabilire priorità di intervento con soluzioni specifiche. Finora non siamo in grado di individuarle o non abbiamo voluto – aggiunge – perché si aprono questioni importanti, tra cui il nodo risorse e quello sulla risposta delle comunità. Ma certe situazioni potrebbero essere risolte con impegno di risorse e tempi relativamente ridotti. Oggi abbiamo a disposizione conoscenze e dati impensabili fino a pochi anni fa”.
I limiti del Piano nazionale di adattamento – Non avrebbe dovuto fare passi avanti il Piano di adattamento ai cambiamenti climatici? “Una volta delineate le strategie, il Pnacc non ha però individuato gli interventi a livello locale”. Il problema è anche la peculiarità del territorio italiano, “esposto a cambiamenti climatici piuttosto importanti, intensamente sfruttato e densamente popolato”. Ogni volta che il dibattito si accende, si parla delle possibili soluzioni, come le casse di espansione, la rinaturalizzazione e la delocalizzazione, che significa restituire ai fiumi il loro spazio. “Questi interventi vanno scelti in base al contesto – spiega Montanari – solo che il Pnacc non è riuscito a farlo”. Tra l’altro, soluzioni come quelle delle casse di espansione o delle dighe si scontrano spesso con l’opposizione dei territori. “In certi contesti, però, le opere sono necessarie. Sono convinto che in Romagna qualche cassa di espansione vada fatta – aggiunge – così come in altre aree del Paese, solo che in alcune zone non si può, perché non c’è più spazio. Ma la questione principale riguarda le priorità. In Romagna l’anno scorso sono esondati 23 fiumi: qual è quello più urgente su cui intervenire e dove è possibile farlo?”. La storia dell’Emilia-Romagna è sempre stata una storia di controllo dei fiumi, dato che si tratta di una pianura alluvionale. “Un controllo che ha subìto una battuta d’arresto negli ultimi cento anni, dovuta a una spinta allo sviluppo economico e sociale. Solo che adesso – conclude – bisogna investire parecchio”.