Nel 2023 circa quattro milioni e mezzo di italiani hanno rinunciato a curarsi. Quasi l’8% della popolazione ha fatto a meno di visite specialistiche o esami diagnostici, nonostante ne avesse bisogno. Questo a causa dei lunghi tempi di attesa e delle difficoltà di accesso alle strutture, imposti da un Servizio sanitario nazionale a cui mancano oltre 52 miliardi di euro per mettersi in pari con gli standard di spesa pubblica garantiti dagli altri Paesi Ocse membri dell’Ue. Chi ha abbastanza soldi cerca di compensare pagando direttamente di tasca sua per la propria salute, come dimostra l’impennata della spesa privata (+10,3%). Mentre i più fragili sono costretti a farne a meno: 2,5 milioni di persone, il 4,2% della popolazione, ha rinunciato alle cure per motivi economici. Quasi 600mila in più rispetto all’anno scorso. E le disuguaglianze sociali peggiorano nel Mezzogiorno: Puglia e Basilicata sono le uniche regioni del Sud a garantire i Livelli essenziali di assistenza (Lea), quelle prestazioni e quei servizi che il Ssn è tenuto a fornire a tutti i cittadini gratuitamente o attraverso il pagamento di un ticket. A questo quadro drammatico si aggiunge la crisi del personale sanitario, senza precedenti in Italia: tra il 2019 e il 2022 il Ssn ha perso oltre 11mila medici, in fuga da turni massacranti, burnout, basse retribuzioni, prospettive di carriera limitate e dall’aumento degli episodi di violenza. Ma ancora più grave è la mancanza di infermieri. Sono solo 6,5 ogni mille abitanti – contro la media Ocse di 9,8 – e questo dato è destinato a peggiorare visto che l’Italia è terzultima per numero di laureati in Scienze Infermieristiche, davanti solo a Lussemburgo e Colombia.

Sono solo alcuni dei molti dati allarmanti riportati dal 7° Rapporto Gimbe sul Ssn. Il report, presentato l’8 ottobre a Palazzo della Minerva a Roma, ha l’obiettivo di sensibilizzare i decisori politici, all’alba della Legge di Bilancio, sulla necessità di rimettere la sanità al centro del dibattito pubblico e dell’agenda di governo. “Dati, narrative e sondaggi di popolazione dimostrano che oggi la vera emergenza del Paese è la salvaguardia della sanità pubblica”, ha dichiarato Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, introducendo i risultati del rapporto. “Il problema oggi della politica è dover trovare i soldi per il rilancio del Ssn. Le risorse da investire che possono venire da una tassa di scopo come quella sul fumo o dall’aumento delle imposte a redditi molto elevati, come la patrimoniale“. Per il presidente, il Servizio Sanitario Nazionale si sta disgregando in 21 Sistemi Sanitari Regionali, basati sulle regole del libero mercato. E l’autonomia differenziata peggiorerà la situazione, legittimando normativamente le diseguaglianze regionali. “La tenuta del Ssn è prossima al punto di non ritorno – prosegue -. I principi fondanti di universalismo, equità e uguaglianza sono stati ormai traditi e si sta lentamente sgretolando il diritto costituzionale alla tutela della salute, in particolare per le fasce socio-economiche più deboli, gli anziani e i fragili, chi vive nel Mezzogiorno e nelle aree interne e disagiate”. Per Cartabellotta, negli ultimi 15 anni, a causa dei costanti definanziamenti, abbiamo assistito a una “privatizzazione strisciante” che ha comportato l’aumento delle disuguaglianze. “O si rilancia il Ssn, con fondi pubblici e riforme di sistema, o tanto vale governare la privatizzazione. Ora è tempo di ripartire, di stipulare un patto politico e sociale che coinvolga tutti, al di là delle ideologie. Dobbiamo decidere cosa vogliamo garantire alle generazioni future”, commenta.

Finanziamento pubblico – È la prima grande criticità analizzata dal report. Tra il 2010 e il 2024, il Fabbisogno Sanitario Nazionale (Fsn) è aumentato di 28,4 miliardi di euro. Una media di due miliardi all’anno, che però ha seguito trend molto diversi. Nel periodo pre-pandemico (2010-2019) alla sanità pubblica sono stati sottratti oltre 37 miliardi di euro, tra tagli per il risanamento della finanza pubblica e minori risorse assegnate rispetto ai livelli programmati. Negli anni 2020-2022 il Fsn è aumentato di 11,6 miliardi, una cifra che però non è servita né a rafforzare il sistema da un punto di vista strutturale né a risanare i conti delle Regioni, bensì a riassorbire i costi della pandemia. Anche per gli anni 2023-2024, l’aumento del Fsn (+ 8,6 miliardi di euro) è stato in larga parte prosciugato dalla copertura dei costi energetici e dai rinnovi contrattuali del personale. Secondo il rapporto Gimbe, le previsioni per il prossimo futuro non lasciano intravedere alcun rilancio del finanziamento pubblico per la sanità: stando a quanto affermato nel Piano Strutturale di Bilancio, la spesa sanitaria in proporzione al Pil è prevista in calo dal 6,3% al 6,2% entro il 2027.

La spesa sanitaria cresce, ma solo quella privata – Nel 2023, la spesa sanitaria totale è aumentata di circa 4,2 miliardi di euro rispetto all’anno precedente, ma la spesa pubblica è rimasta sostanzialmente invariata (- 0,1%). Questo vuol dire che l’incremento è stato interamente sostenuto dalle famiglie: la spesa privata è cresciuta di 4,3 miliardi di euro (+10,5%), di cui 3,8 miliardi di spese “out of pocket”, ovvero quelle sostenute direttamente dai cittadini. Queste, che nel periodo 2021-2022 avevano registrato un incremento medio annuo dell’1,6%, nel 2023 si sono impennate, aumentando del 10,3%. A questo si aggiunge il crollo nelle spese di prevenzione: rispetto all’anno precedente, nel 2023 la spesa per i “Servizi per la prevenzione delle malattie” si è ridotta di quasi due miliardi.

Crisi del personale sanitario – È il “problema dei problemi” secondo Cartabellotta, “inizialmente dovuto al definanziamento del Ssn e ad errori di programmazione, e oggi, dopo la pandemia, aggravato da una crescente frustrazione e disaffezione per il Servizio pubblico”. Dal 2019 al 2022, oltre 11mila medici hanno lasciato il Ssn, principalmente a causa di condizioni di lavoro insostenibili e bassa retribuzione. Un trend che è proseguito anche nel 2023 e in questi mesi del 2024. Non c’è carenza assoluta di medici – l’Italia dispone complessivamente di 4,2 camici bianchi ogni mille abitanti, un dato superiore alla media Ocse di 3,7 – ma ci sono sempre meno professionisti disposti a lavorare nel pubblico. Oltre ai medici di famiglia, alcune specialità mediche fondamentali non sono più attrattive per i giovani camici bianchi, che disertano le specializzazioni in medicina d’emergenza-urgenza, medicina nucleare, medicina e cure palliative, patologia clinica e biochimica clinica, microbiologia, e radioterapia. Ma la carenza più grave è quella del personale infermieristico: l’Italia ha solo 6,5 infermieri ogni mille abitanti, molto al di sotto della media Ocse di 9,8. Una carenza ancor più critica se la si inquadra all’interno della riforma dell’assistenza territoriale, che richiederebbe un numero maggiore di infermieri. Le iscrizioni ai corsi di laurea in Scienze Infermieristiche, inoltre, sono in costante calo, svuotando di fatto il serbatoio dal quale si potrà attingere nei prossimi anni. Con solo 16,4 laureati per 100mila abitanti – rispetto a una media Ocse di 44,9 – l’Italia è al penultimo posto in Europa.

Lea, divario Nord-Sud e mobilità sanitaria – Solo 13 regioni italiane su 21 rispettano gli standard minimi dei Lea, le prestazioni sanitarie che il Ssn deve garantire a tutti i cittadini. Il rapporto sottolinea un divario crescente tra Nord e Sud: Puglia e Basilicata sono le uniche due regioni meridionali che rispettano gli standard, e in ogni caso sono posizionate negli ultimi posti della classifica. “A questo quadro si aggiunge – prosegue Cartabellotta – la legge sull’autonomia differenziata, che affonderà definitivamente la sanità del Mezzogiorno, assestando il colpo di grazia al Ssn e innescando un disastro sanitario, economico e sociale senza precedenti che avrà conseguenze devastanti per milioni di persone”. Il report sottolinea come le Regioni inadempienti sui Lea siano quasi tutte in piano di rientro o commissariate da anni. Ed è proprio in queste Regioni che l’aspettativa di vita è inferiore alla media Italiana. A dimostrazione, spiega Gimbe, di come queste politiche di rientro abbiamo esacerbato le disuguaglianze nel paese. I cittadini del Mezzogiorno sono così costretti a curarsi al Nord: nel decennio 2012-2021, il Sud ha accumulato un deficit di 10 miliardi di euro a causa della migrazione sanitaria. Un fenomeno che impoverisce il territorio, aggrava le difficoltà economiche delle famiglie e crea un effetto domino sulle risorse sanitarie locali, sempre più limitate.

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