Procederemo in ordine d’uscita. Quindi partendo dal sequel del momento, Joker: Folie a doix di Todd Phillips. Grande film perché costato 200 milioni di dollari, ma pure per la sua pesante eredità dal primo capitolo del 2019 sia per incassi storici che per iconicità e premi (due Oscar e un Leone d’Oro), e perché dura ben oltre 2 ore – quando le sue parti drammatiche rimontate al netto nelle parti musicali potrebbero bastare per un cortometraggio di mezz’ora. L’elemento musical, così tanto disprezzato ora dai pollici versi, è invece la rivoluzione mancata, l’asso nella manica, geniale idea utilizzata male dall’autore, giusto in maniera espositiva.
Siamo ad Arkham, manicomio criminale di massima sicurezza che nei fumetti DC Comics ha tenuto in gatta buia anche tanti villain con superpoteri come Bane e Poison Ivy. Qui invece il povero Arthur, Joaquin Phoenix, reduce dalla vanagloria del finale rivoltoso in Joker è rinchiuso da un paio d’anni, e malmenato da sbirri bulli e in sovrappeso. Per l’ennesima derisione lo sbattono nell’aula di canto, dove c’è Lee (la futura Harley Quinn) col viso e l’immenso talento di Lady Gaga. Qui sprecato per un personaggio appena stilizzato in passivo e ombreggiato di maschilismo. La sorveglianza di questa versione di Arkham è talmente leggera che l’istituto detentivo di Mare Fuori a confronto sembra Alcatraz. Si può sbirciare traquillamente da porte socchiuse, e addirittura Gaga esce in corridoio a guardare il suo Arthur senza uno straccio di controllo. Si possono improvvisare fughe insieme, o forse solo sognarle in nome dell’amor cortese. E si può sognare in musica, anzi il musical. Prima dell’uscita sembrava che tutte quelle coreografie sarebbero state i sogni di lei, ma invece sono di Arthur, e soprattutto di Todd, l’autore, in un guazzabuglio illusorio e autodistruttivo ben girato e mal montato che resta esteticamente iconico, ma svuotato di drammaturgia come un manichino. Forse colpa delle aspettative, troppe.
Tanti i riferimenti musicali del passato, altrettanto stimolanti quelli cinematografici, va bene. Ma tra un prison movie con pallide ambizioni da Cuculo mescolato disordinatamente a un legal thriller dai risvolti musicali, e passionali da Ultimo tango ad Arkham, questa Follia a Due alla fine si rivela giusto una bella, bellissima gran perdita tempo, soldi ed energie, perché tutto ciò che ripete a cantilena era già forte e chiaro nel primo film. La novità sarebbe quindi Gaga utilizzata così? L’affondo definitivo dell’antieroe senza carisma, o l’autodistruzione dell’antieroe, anzi oltre, dell’autore? Purtroppo non basta a evitare noia e confusione narrativa. Più che un sequel sembra un ipertrofico demo del grande film che avrebbe potuto essere. Al pubblico e ai rattristati cosplayer l’ardua sentenza.
Si vola invece con gusto e fantasia per grandi e piccini grazie all’ultimo titolo della Dreamworks, Il robot selvaggio di Chris Sanders, autore esperto di animazioni fantasy tra ufo e volatili, visti i suoi pregevoli Dragon Trainer e Lilo & Stitch. Un robot progettato per servire, Roz, naufraga su un’isola selvaggia ma impara a sopravvivere nella natura come una Robinson Crusoe tecnologica. Il suo Venerdì in realtà sarà una volpe che le insegnerà le leggi del bosco, ma un piccolo di oca che nascerà davanti ai suoi occhi d’acciaio la renderà responsabile del nuovo arrivato pennuto. Come una mamma.
The Wild Robot, Il robot selvatico per l’Italia, nasce come serie in tre coloratissimi libri per bambini dell’illustratore Peter Brown. Edita per la prima volta nel 2016, racconta una storia di crescita semplice e coinvolgente che sul grande schermo amplia le stilizzazioni grafiche di Brown in un’animazione con parti chiaramente pittoriche fuse ad arte con quelle digitali. A parte la resa visiva felicissima, Sanders è riuscito a farne un’epopea dinamica, un’esperienza emozionante da grande schermo, ma pure una piccola lezione per nulla banale sul rispetto per la natura che ci circonda. Libro più film sono una combinazione originale e potenzialmente stimolante per bambini under 9. Ma il film conquista facilmente anche lo spettatore adulto. Piccola previsione: sarà probabilmente nella cinquina dei nominati all’Oscar per il Miglior film d’animazione insieme a Inside Out 2 e all’outsider franco-lettone Flow, di cui parleremo più in là.
Era già tutto previsto che avrebbe portato sullo schermo una versione femminile, inedita e poetica di sé stesso Paolo Sorrentino. Anzi no, previsto per niente, ma suonava bene per citare il pezzo portante di Riccardo Cocciante ripescato dal 1975. Dopo l’accoglienza tiepida di Cannes arriverà il 24 ottobre nelle sale Parthenope. L’autore dopo averci parlato del suo passato con È stata la mano di Dio, questa volta approfondisce il discorso su Napoli, ma lo sguardo sontuosamente antropologico su Roma nella Grande Bellezza lascia il posto a un nascondimento accorato della sua indole dietro le sigarette e il fascinoso disinteresse apparente di Parthenope, e alla visione totalmente sensoriale della sua città attraverso il corpo e l’anima irraggiungibili di questa ragazza. Nella prima parte sembra tutto un’elegia del femminile, della bellezza e dell’erotismo sognato da tanta commedia più e meno autoriale degli anni 70 fino a Malena, confezionata dalla raffinatezza riconoscibilissima di Sorrentino. Poi il personaggio cresce, anzi sboccia tra gli eventi che attraversa e diventa una flaneur intellettuale e sopraffina nell’acume, talentuosa nello studio, ma ancor più sfuggente nella sua unicità e solitudine di essere umano.
“Scambiare l’irrilevante per decisivo”, “il silenzio per i belli che diventa mistero, mentre per i brutti fallimento” e tanti altri concetti topici enunciati dai personaggi vogliono portarci al sublime attraverso l’impensabile. “Partè!” Così la chiamano parenti e amici, ma non il suo professore di antropologia interpretato da Silvio Orlando, col quale permane un rispettoso e reciproco darsi del lei per uno scambio professionale sempre più esistenziale. Fino alla beffarda, iperbolica e toccante immagine che ne chiuderà la sua presenza nel film.
Il casting ha del miracoloso perché Celeste Dalla Porta è semplicemente magnetica in tutto e la sua magia si compie quando Sorrentino riesce a farci credere che lei è Stefania Sandrelli giovane, spazzando via il nostro immaginario per un po’. L’attrice icona ne interpreta infatti la versione anziana, che ricorda il suo passato. Poi guarda dritto nel potere Sorrentino attraversando anche la Chiesa, il miracolo del Sangue di San Gennaro e il fascino mefistofelico del cardinale di Peppe Lanzetta. Sulle placide acque cristalline del Golfo di Napoli ci culla e ci strattona mettendoci alla prova con i suoi twist il regista, tutto infine per una lunga ode allo scorrere inesorabile del tempo. #Peace