“Non so se stia cercando di influenzare le elezioni”. Così Joe Biden ha risposto ai giornalisti che gli chiedevano se Benjamin Netanyahu abbia sinora sabotato un accordo su Gaza per mettere in difficoltà i democratici e favorire l’ascesa alla Casa Bianca di Donald Trump. Si tratta di un’affermazione di straordinaria gravità. Il presidente degli Stati Uniti, colui che non ha mai fatto mancare il suo assoluto sostegno a Israele e che ha assicurato un flusso costante di armi allo Stato ebraico, dice di “non sapere” se l’alleato ha cospirato per far perdere le elezioni al suo partito. “Nessuna amministrazione americana ha fatto per Israele più di quanto abbia fatto io. Nessuna. Nessuna. Nessuna”, ha aggiunto esasperato Biden. Per il presidente si tratta del resto di una doppia sconfitta. Anzitutto politica: il progetto che Biden ha cercato di tessere – reciproco riconoscimento tra Arabia Saudita e Israele, nascita di uno Stato palestinese – è naufragato con il deflagrare della guerra su Gaza. La sconfitta è anche personale. Biden si sente sfidato e tradito da chi ha sostenuto, anche a scapito della sua personale popolarità negli Stati Uniti e nel mondo.
L’America ricorda l’anno di guerra a Gaza con preoccupazione e un senso di forte incertezza. È ormai chiaro che il conflitto non si chiuderà a breve e che anzi minaccia di allargarsi all’intera regione. Negli Stati Uniti, negli ambienti diplomatici e politici, si cerca di capire che cosa non ha funzionato nell’azione diplomatica americana. Le ragioni più spesso citate sono di carattere interno e internazionale.
IL 7 OTTOBRE – La data segna un punto di non ritorno per israeliani e palestinesi. Le 1.250 vittime dell’attacco di Hamas e le oltre 40mila uccise durante le operazioni militari israeliane rendono questa guerra diversa da tutte le altre del conflitto arabo-israeliano. Si dall’inizio, la traiettoria dello scontro è apparsa guidata dalle forze più radicali e da obiettivi inconciliabili. Per Netanyahu e il suo governo si trattava di distruggere Hamas. Per Yahya Sinwar la sfida era quella di riportare l’attenzione internazionale sui palestinesi e bloccare il processo di normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele. Non solo continuare il conflitto, ma anche allargarlo, è stato sin dall’inizio nell’interesse delle parti. Netanyahu, inseguito da personali problemi giudiziari e minato dai rissosi partner di governo, è riuscito a mantenersi a galla. La guerra ha fatto di Hamas, e non dell’Autorità Nazionale Palestinese di Mahmoud Abbas, la vera, legittima rappresentante degli interessi dei palestinesi. Tutto ciò ha ovviamente limitato le possibilità di manovra degli Stati Uniti, oltre che di Egitto e di Qatar. Il negoziato diventa impossibile quando le parti hanno assoluto bisogno della guerra per esistere.
L’ALLEATO – Dopo il 7 ottobre 2023, Joe Biden è volato in Israele per abbracciare Netanyahu ed esprimergli il sostegno suo e del popolo americano. A Washington non c’è però voluto molto per capire una cosa. L’apparente alleato, Netanyahu, era sin dall’inizio mosso da interessi e ambizioni che solo in parte coincidevano con quelli di Israele – e quindi degli Stati Uniti. Nel passato, ci sono stati momenti più o meno felici nelle relazioni tra Stati Uniti e Israele. I presidenti Usa e i primi ministri israeliani si sono scontrati anche duramente quando le strategie dei due Paesi non combaciavano. Questa volta è però avvenuto qualcosa di assolutamente inedito. Le decisioni del primo ministro israeliano sono state in larga parte influenzate da ragioni personali. I processi a Netanyahu per frode e corruzione sono in corso. Fino a quando lui resta al suo posto, hanno scarse probabilità di concludersi con una condanna. Per sopravvivere, Netanyahu si è quindi trovato costretto a soddisfare le richieste che gli venivano dai membri più estremisti del suo governo, in particolare Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir. Questo ha condizionato le sue posizioni su assistenza umanitaria a Gaza e accordo prigionieri-ostaggi. Questo ha condotto a un gioco continuo e ambiguo di Netanyahu con gli Stati Uniti, un girotondo di sì, no, forse, nì che alla fine ha fiaccato gli sforzi americani – quante volte a Washington hanno dato per prossimo e certo l’accordo e la fine dei combattimenti? – generando un’impressione di debolezza della diplomazia americana.
LE ARMI – È forse la ragione più importante che spiega il fallimento dell’azione diplomatica americana. Come ha ricordato su Foreign Affairs Andrew Miller, ex funzionario del Dipartimento di Stato, praticamente tutti i presidenti americani da Lyndon Johnson in poi hanno bloccato o minacciato di bloccare l’afflusso di armi a Israele. Questa volta, a parte una limitata sospensione delle bombe più pesanti, l’esercito di Tel Aviv ha continuato a essere ampiamente rifornito. Un’inchiesta di ProPublica della scorsa settimana – basata su documenti interni, e-mail, appunti, verbali di riunioni del Dipartimento di Stato, conversazioni a condizione di anonimato – mostra come l’amministrazione Usa abbia continuato ad approvare le vendite di armi americane a Israele, nonostante le prove sempre più evidenti del massacro di civili e delle violazioni dei diritti umani a Gaza.
Un esempio per tutti. A fine gennaio, con almeno 25mila civili uccisi a Gaza, interi centri urbani rasi al suolo e migliaia di palestinesi in fuga dalle loro case, l’esercito israeliano chiese al governo americano 3.000 bombe in più. L’ambasciatore statunitense in Israele, Jack Lew, inviò un telegramma a Washington esortando i leader del Dipartimento di Stato ad approvare la vendita. Lew, perfettamente a conoscenza della situazione nella Striscia, spiegava che non c’era alcuna possibilità che le forze israeliane abusassero delle armi. Questa sottovalutazione delle dimensioni della tragedia di Gaza è stata continua da parte degli americani. Le due principali autorità del governo Usa in materia di assistenza umanitaria – l’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale e l’ufficio dei rifugiati del Dipartimento di Stato – hanno concluso in primavera che Israele aveva bloccato deliberatamente le consegne di cibo e medicine a Gaza, chiedendo di sospendere le vendite di armi. Dopo aver respinto queste conclusioni, Blinken andò al Congresso spiegando che Israele non stava bloccando gli aiuti. Alla fine, gli Stati Uniti hanno privilegiato gli interessi militari, economici, storici, politici che li legano a Israele. Questo ne ha indebolito fortemente l’azione diplomatica che si è privata dell’unico vero strumento di pressione su Israele: il blocco alle forniture militari. La condiscendenza americana ha dato a Netanyahu l’impressione di poter condurre la sua sfida liberamente e fino alle estreme conseguenze.
JOE BIDEN – Un’ultima causa del fallimento sostanziale dell’azione diplomatica Usa va probabilmente ritrovata proprio nell’uomo che l’ha guidata. Joe Biden, classe 1942, l’ultimo presidente della storia americana a essere nato prima della conclusione della Seconda Guerra Mondiale, è per tradizione e cultura legato agli anni della Guerra Fredda, dei blocchi contrapposti, dell’America faro di democrazia nel mondo. La sua fedeltà a Israele, la sua devozione per lo Stato degli ebrei, sono totali. È stato, da senatore, uno degli alleati più fedeli di Israele. Ha spesso detto di essere “più sionista dei sionisti” e che uno degli episodi più emozionanti della sua carriera è stato l’incontro con Golda Meir. Dopo il 7 ottobre, Biden non ci ha pensato un momento e ha fatto quello che la sua storia gli imponeva. Allinearsi a Israele. Difenderne il diritto all’esistenza. Non era probabilmente, Joe Biden, il presidente più adatto a gestire i giochi nuovi e più sfuggenti del Medio Oriente e di un mondo ormai multipolare. L’ultimo anno è lì a dimostrarlo.