La certezza è una sola: dalla risposta che sceglierà di dare al raid missilistico del 1° ottobre si capirà se Israele ha intenzione di alimentare un conflitto diretto con l’Iran o se ci sono spiragli perché l’escalation si arresti. Il primo obiettivo, il più plausibile, potrebbero essere le basi militari o le strutture dell’intelligence. Il secondo, un attacco ai siti petroliferi, rischia di scatenare nell’area una pericolosa guerra del greggio e incontra la netta opposizione di Joe Biden, impegnato in campagna elettorale: un rialzo dei prezzi del carburante a un mese dalla presidenziali sarebbe un’arma potentissima consegnata nelle mani di Donald Trump.

Terza opzione: gli impianti nucleari. L’obiettivo è nel mirino di Tel Aviv da anni, ma senza i mezzi degli Stati Uniti distruggerli è impossibile. Le strutture di arricchimento dell’uranio di Natanz e Fordow sono costruite in terreni rocciosi a decine di metri di profondità e gli ordigni che Israele possiede non bastano per raggiungerli: negli ultimi decenni, anzi, Wshington ha fatto in modo che Tel Aviv non entrasse in possesso di bombe con tali capacità. Qualsiasi attacco che causasse danni ad altri siti, come gli impianti di produzione di centrifughe o le strutture di conversione, ne rallenterebbe sì il programma ma lascerebbe all’Iran la capacità di costruire in poco tempo nuove centrifughe e continuare ad arricchire l’uranio. Meno peregrina, invece, pare l’ipotesi di mettere nel mirino le strutture di superficie, magari colpendone le difese come accaduto a Isfahan il 19 aprile quando un missile centrò un sistema antiaereo S-300 nella base militare di Shekari, a nord-ovest della città che ospita un impianto di arricchimento. Come pure quella di sferrare cyber-attacchi contro i loro sistemi informatici. Tutte ipotesi che aprono nuove incognite, perché anche solo la minaccia di interventi di questo tipo potrebbe indurre Teheran ad accelerare sul proprio programma nucleare.

L’Iran lo considera un deterrente contro attacchi diretti o invasioni del proprio territorio, una sorta di polizza assicurativa contro eventi come l’invasione dell’Iraq del 2003 da parte degli Stati Uniti. Una polizza sulla vita che consente al regime degli ayatollah di impegnarsi in attività di destabilizzazione o autodifesa nella regione, come l’utilizzo di Hezbollah nella guerra per procura contro Israele. Nell’ultimo anno, però, lo scenario è cambiato e quella tra Tel Aviv e Teheran si sta trasformando da “proxy war” in conflitto diretto. Un’evoluzione che fa nascere nuove, inquietanti incognite.

L’attacco balistico sferrato il 1° ottobre non ha causato danni rilevanti a Israele e da settimane Hezbollah è sotto il fuoco costante delle Israel Defense Forces. Questi due fattori, insieme all’uccisione del leader di Hassan Nasrallah, si riflettono sulla percezione che la Repubblica islamica ha dei possibili sviluppi della campagna israeliana nella regione: quella del Partito di Dio è la milizia più potente che Teheran ha a disposizione per condurre la sua guerra di prossimità con Tel Aviv e il suo indebolimento lascia l’Iran meno difeso. “Se l’asse della resistenza non funziona, l’unico deterrente potrebbe diventare quello nucleare“, ha spiegato al Washington Post David Albright, presidente dell’Institute for Science and International Security, think tank specializzato in questioni di sicurezza.

Il Bulletin of Atomic Scientists considera plausibile questo scenario. Per l’organizzazione dei fisici atomici fondata nel 1945 da Albert Einstein che monitora lo sviluppo delle armi nucleari nel mondo, il passaggio da una guerra per procura a un conflitto diretto non farà che aumentare il valore che l’Iran attribuisce al nucleare: “Se l’Iran dovesse prevedere che Israele si sta preparando a lanciare attacchi contro i suoi siti, potrebbe decidere di accelerare la produzione di un’arma nucleare prima che Israele abbia il tempo di infliggere danni significativi alla sua capacità di farlo con rapidità”. Sfortunatamente, prosegue il Bulletin, anche un attacco israeliano contro asset non nucleari “potrebbe portare la leadership iraniana a giungere a una conclusione simile”. Lasciata intravedere nei giorni scorsi da ambienti vicini ai Guardiani della rivoluzione, secondo cui se minacciati il regime “rivedrà la sua politica” in tema di energia atomica.

L’Iran è da tempo impegnato nel difficile compito di riaprire i colloqui sul tema con l’Occidente per arrivare a un allentamento delle sanzioni, ma secondo Usa e Nazioni Unite da quando nel 2018 Trump ha affossato il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), l’accordo raggiunto con il cosiddetto “5+1”, Teheran si è messa nelle condizioni di arricchire l’uranio in tempi relativamente brevi, anche se sui questi tempi non esistono certezze. In un rapporto pubblicato il 5 febbraio 2024 lo US Office of the Director of National Intelligence descrive la minaccia come più cogente rispetto alle valutazioni precedenti: “L’Iran attualmente non sta intraprendendo le principali attività di sviluppo necessarie a produrre un dispositivo nucleare testabile”, si legge. Tuttavia “dal 2020 Teheran ha dichiarato di non essere più vincolata da alcun limite previsto dal JCPOA e ha notevolmente ampliato il suo programma, ridotto il monitoraggio dell’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica, ndr) e intrapreso attività che lo mettono in condizioni migliori per produrre un ordigno nucleare, se sceglie di farlo“.

Ora le ipotesi sul tavolo sono diverse. L’Iran potrebbe decidere di arricchire l’uranio a livelli di grado militare e sebbene non si tratti di uno sviluppo sufficiente a produrre un’arma sarebbe comunque un passo in questa direzione. Teheran, secondo il Bulletin, potrebbe anche reagire ritirandosi dal Trattato di non proliferazione nucleare (TNP) che ha firmato nel 1968 e ratificato nel 1970, a cui seguirebbe la chiusura delle porte agli ispettori dell’Aiea. Sebbene il regime abbia limitato il loro accesso negli ultimi anni, tra mille difficoltà l’Agenzia ha comunque portato avanti le sue attività di monitoraggio. Un ritiro dal trattato lascerebbe la comunità internazionale all’oscuro di ciò che accade nel sottosuolo del Paese. Il che rischia di aumentare l’instabilità nella regione.

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