Ambiente & Veleni

Influenza aviaria, l’Italia dei nuovi focolai ha paura di cosa accade negli Usa. L’esperto: “Trasmissione tra umani? Scenario non è impossibile”

Dopo il primo focolaio autunnale di influenza aviaria che ha colpito un allevamento di tacchini a Mira (Venezia), con 29mila animali abbattuti, in questi giorni è toccato a 800mila galline di una struttura di Codigoro, in provincia di Ferrara. Ma c’è qualcosa che preoccupa ancora di più. Agli inizi di settembre il Center for Disease Control (CDC) ha comunicato il quattordicesimo caso nel 2024 di infezione nell’uomo di H5N1 negli Usa: è stato registrato in Missouri ed è la prima volta in cui non c’è prova dell’esposizione della persona infetta ad animali malati. Ergo: non si può escludere con assoluta certezza che sia avvenuta la trasmissione tra esseri umani, che tanto si teme. Per capire se e in che misura bisogna preoccuparsi e che cosa si rischia anche in Italia, ilfattoquotidiano.it ha chiesto chiarimenti a Calogero Terregino, direttore del Laboratorio di referenza europeo per l’influenza aviaria dell’Istituto Zooprofilattico sperimentale delle Venezie (IZSVe). “Dalle informazioni che abbiamo, ad oggi è più logico dedurre che il virus sia stato trasmesso per via animale e che la persona infettata non se ne sia accorta, ma questo non significa che la trasmissione da uomo a uomo sia uno scenario impossibile” spiega l’esperto. E aggiunge: “Credo che purtroppo sia inevitabile l’arrivo di una nuova pandemia e i virus dell’influenza animale, pensiamo anche a quella suina, rimangono nella top ten di quelli più pericolosi”. Ci sono una serie di indicatori legati alla violenza sulla natura e al fatto che prendiamo animali dai loro habitat e li portiamo a casa nostra. In Italia? “Negli ultimi due anni i focolai sono diminuiti, grazie a una serie di misure, ma purtroppo il virus impone che l’attenzioni resti alta. Si fa presto a tornare in una situazione di crisi”.

Cosa sta accadendo negli Stati Uniti – L’influenza aviaria è diventata una malattia globale. Solo in Australia non sono stati ancora individuati casi di H5N1 che, però, nel mondo circola dal 1997, in forme diverse e con tante varianti. Negli Stati Uniti, come negli altri continenti, attraverso il contatto con la fauna selvatica, erano già stati contagiati i polli negli allevamenti intensivi, ma anche diversi mammiferi, come volpi, linci, visoni. “La scorsa primavera – racconta Terregino – per la prima volta questo virus ha colpito il bovino da latte, con lo spillover, il passaggio di specie sulle cui cause ci sono ancora degli aspetti poco chiari. Tutti gli altri casi sono dovuti a una diffusione da un allevamento all’altro”. Ed è avvenuto piuttosto in fretta: oltre 250 allevamenti coinvolti in quattordici Stati. Il sistema produttivo non aiuta. “Negli Stati Uniti si spostano intere mandrie anche da uno Stato all’altro e si tratta di un sistema che è alla base della diffusione – spiega – perché questa è dovuta in grandissima parte alla contaminazione delle attrezzature della mungitura”. La presenza del virus negli animali domestici può portare a dei casi umani, come è successo negli Stati Uniti e in altri Paesi del mondo, anche europei. In questo momento sono sedici i casi negli Usa, tra quelli trasmessi dai bovini e quelli in cui il contagio è avvenuto negli allevamenti di polli. Gli ultimi in California. “Per fortuna si tratta di tutti casi lievi e risolti nel giro di qualche giorno” aggiunge.

Il caso del Missouri – Quello che è accaduto in Missouri, invece, pone un altro problema. Perché per la persona ricoverata il 22 agosto scorso non ci sono prove di un contatto con animali malati. “Quando virus di questo tipo, come accaduto con la Sars, iniziano a circolare tra la popolazione umana, nel giro di poco tempo i casi salgono a livelli esponenziali” spiega l’esperto, secondo cui “è abbastanza improbabile che ci sia una diffusione non individuata del virus a livello di popolazione umana, ma la preoccupazione è che ci possano essere altre fonti di contaminazione diverse dal contatto diretto con gli animali”. Insomma, quello che è successo, non lo sa ancora bene nessuno. Si sta investigando sulle possibili origini dell’infezione ma, di fatto, non c’è nessuna evidenza di contaminazione o di passaggio di infezione da uomo a uomo, né tra familiari né tra gli operatori sanitari, di cui pure si è parlato nei giorni scorsi, perché alcuni accusavano sintomi riconducibili al virus. Nessuna delle persone monitorate, però, è risultata finora infetta. “Siamo in attesa di capire se altre indagini possano chiarire quello che è un aspetto certamente inquietante. Al momento non ci sono prove di un contagio tra esseri umani, mentre il contatto, inconsapevole, potrebbe essere avvenuto con materiale contaminato” spiega il direttore del Laboratorio di referenza europeo per l’influenza aviaria dell’IZSVe.

Il rischio della continua mutazione del virus – Ma anche se gli ulteriori accertamenti in corso dovessero dimostrare che il caso del Missouri è l’ennesimo in cui, anche senza averne conoscenza, il paziente è invece entrato in contatto con un animale, quanto è reale il rischio che, prima o poi, avvenga un passaggio da uomo a uomo? Il pericolo è molto concreto secondo David Quammen, autore di Spillover, il libro nel quale il divulgatore scientifico aveva predetto la pandemia che ha sconvolto il pianeta. Quammen lo ha ribadito anche di recente. “L’H5N1 è un sottotipo – spiega Terregino – che storicamente fa fatica a rompere la barriera di specie e i dati a disposizione ci dicono che è ancora fortemente adattato agli uccelli. Non ha subito quell’insieme, per fortuna numeroso, di mutazioni che lo renderebbero adattato all’uomo, anche se una serie di variazioni sono attenzionate. Questa è la situazione, a meno che non circolino virus che non conosciamo e che presentano tutta questa serie di mutazione”. Di fatto le organizzazioni internazionali continuano a considerare il rischio basso per la popolazione, più alta per le persone esposte, per esempio chi lavora negli allevamenti o è a contatto diretto con gli animali. Il problema, però, è che ci sono milioni di animali selvatici o domestici infetti e miliardi di virus che circolano: “Tramite fenomeni diversi, geni dell’H5N1 potrebbero essere donati ad altri virus e, attraverso fenomeni di rimescolamento genetico, si potrebbero creare virus sconosciuti alla popolazione umana”. Una serie di elementi potrebbero incastrarsi in senso negativo e se questo virus muta in continuazione, aumentano le possibilità di avere prima o poi una variante più adattata all’uomo. “Per questo occorre essere molto incisivi nell’eradicare la malattia soprattutto negli allevamenti, come quelli dei bovini, dove il virus ha già fatto un salto di specie” spiega.

La situazione in Europa e in Italia – In Europa il passaggio da una specie all’altra è avvenuto in diversi mammiferi. Mai nei bovini. Il virus circola da anni negli uccelli selvatici, con picchi in determinate stagioni, a seconda delle aree del continente. In Nord Europa, durante la stagione di riproduzione degli uccelli, mentre in Italia il periodo ad alto rischio va dal 15 settembre al 15 marzo, quando arrivano gli uccelli migratori per svernare nel paesi più caldi. “In questo periodo – aggiunge Terregino – vengono messe in piedi una serie di misure di sorveglianza intensificata e di controllo della malattia”. Di fatto, anche quest’anno ci sono stati i primi casi. “Finora tutto è un po’ nella normalità rispetto ai numeri e ci aspettiamo anche altri casi, ma stiamo cercando di non creare enormi situazioni di diffusione del virus da un allevamento a un altro” spiega. Una situazione simile si è avuta, in Europa, tra il 2020 e il 2021. “Le misure di controllo, concordate anche con i produttori, hanno prodotto i loro effetti – aggiunge – tant’è che veniamo da due anni di bassa circolazione del virus sia nel selvatico sia nel domestico, ma è chiaro che incide ed è un fattore di alto rischio la presenza di una concentrazione di allevamenti intensivi (i due allevamenti finora colpiti sono in Veneto e in Emilia, tra le regioni con il maggior numero di allevamenti e capi, ndr). Di certo, c’è ancora molto da fare. Tra l’altro, le aree densamente popolate di animali allevati coincidono con quelle umide, raggiunte dagli uccelli selvatici”. Non si può, però, dare per scontato che la curva continuerà a decrescere: “Il problema resta la capacità del virus di cambiare continuamente e di creare varianti che invadono i sistemi protettivi, ma anche l’attenzione degli allevatori della biosicurezza, che dovrebbe restare costante. Si fa presto a tornare in una situazione critica”.