Pedalare, correre, pedalare, correre, pedalare. La storia di Souleymane è un film sul ritmo forsennato che impone senza appello il neoliberismo contemporaneo. Sempre più forte, più si scende nella scala socio-economica. Sempre più forsennato, più la disperazione si avvicina. Souleymane (Abou Sangare) è un giovane immigrato della Guinea che fa il rider. Con l’account in sub-affitto da un altro immigrato che ce l’ha mezza fatta e che lo vessa tenendogli un terzo dello stipendio.
Sottoproletariato di un sottoproletariato globalizzato che invade brulicante le strade di Parigi. Una corsa continua senza requie. Ritiro, consegna, codice. In mezzo le pedalate incessanti, gli improperi o i gesti di bontà di clienti o ristoratori, da mattina fino a sera, quando un bus recupera i senza casa e li porta in un dormitorio pubblico fuori città. Nel giro di 72 ore Souleymane dovrà tenere il colloquio per la richiesta di asilo politico, ma non ricorda tutte le informazioni finte da sciorinare dinanzi alla funzionaria statale. Allora, mentre corre, pedala, corre, pedala, infilza le cuffie nelle orecchie per imparare dati e fatti storici da perseguitato politico che non è. Senza dimenticare i pericoli della strada e i soldi per avere documenti e dritte che non bastano mai.
L’azzardo formale dello sceneggiatore e regista francese Boris Lojkine è tutto nel tentativo di ricomposizione di un realismo esasperato, dell’applicazione di una velocità genettiana compressa tra tempo della storia e tempo del racconto che solo nella brevissima introduzione e negli ultimi venti minuti sembra rallentare. Bassissimo budget, attori non professionisti, troupe tecnica ridotta più che all’osso (nemmeno cinque persone in strada con l’attore o i pochisimi attori) fanno di La storia di Souleymane un esempio pratico di cinema che dai Dardenne recupera un lacerante pathos e dal zavattinismo una sincera umanità.
Le sequenze sono tutto un pedinamento assiduo con regista, direttore della fotografia e tecnico del suono che seguono il protagonista in bicicletta velocemente anche loro. I campi larghi nemmeno si accennano, mentre impera l’inquadratura del contatto e della prossimità. Poi chiaro, il significato della storia di Souleymane sta tutta nella collocazione spettatoriale: lo schermo dove viene proiettato il film di Lojkine è uno specchio, ovvero siamo rider anche noi, mezzo gradino più su, ma di corsa, a pedalare; o come dice il regista “gli altri”, quelli che richiedono il cibo che consegna il protagonista, “siamo noi”? Dicotomia interessante, anche per capire dove un film così perfetto, martellante, toccante e finanche ambizioso, vuole collocarsi tra i sempre meno spettatori che vanno al cinema: senso di colpa o identificazione? Distribuisce Academy Two. Premio della giuria e per il miglior attore al protagonista Abou Sangare all’ultimo Certain Regard di Cannes.