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Nei centri in Albania? Solo capoverdiani. Peccato che ne arrivino meno di 5 l’anno. L’alternativa per il governo? Violare la legge

La sorte del protocollo siglato tra Giorgia Meloni e il premier albanese Edi Rama si complica ancora, stavolta al limite del paradosso. Come il Fatto ha spiegato in dettaglio, l’ennesimo grattacapo è arrivato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (Cgue), che ha di fatto cancellato il presupposto per rinchiudere i richiedenti nei centri italiani in Albania, tanto che gli unici africani a poterci finire sarebbero i pochissimi capoverdiani che fanno domanda d’asilo in Italia. A far loro compagnia, se solo attraversassero il Mediterraneo, quelli provenienti dai Balcani, albanesi compresi. Per essere destinati all’esame accelerato delle domande d’asilo e rischiare quindi di finire nei centri in Albania, bisogna infatti provenire da uno dei Paesi che l’Italia considera sicuri. Ma il diritto Ue, hanno chiarito i giudici di Lussemburgo, non ammette eccezioni per aree territoriali o categorie di persone a rischio: un Paese non sicuro per qualcuno non lo è per nessuno. Così, dei 22 Paesi che l’Italia considera “sicuri”, al fine dell’esame accelerato nei centri albanesi ne rimangono solo sette, ma nessuno utile alla causa del governo. Il rischio è che le strutture rimangano vuote. Peggio, che i soldi dei contribuenti italiani siano stati spesi a vuoto.

L’Italia ritiene sicuri i Paesi d’origine in base a una norma del primo governo Conte. “La designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l’eccezione di parti del territorio o di categorie di persone”, dice l’art 2-bis del d.lgs 25/2018, il primo decreto sicurezza di Matteo Salvini, allora al Viminale. La Cgue ha invece chiarito che il diritto non lo consente, censurando la norma e buona parte della nostra lista di Paesi sicuri. Basta leggere le schede allegate al decreto interministeriale che contiene la famosa lista, consultabili grazie a un accesso agli atti dell’Asgi. Tra quelli designati sicuri con eccezioni per parti di territorio o categorie di persone, che quindi sicuri non sono, figurano proprio i Paesi dei migranti che l’Italia contava di portare in Albania dopo averli recuperati in acque internazionali. Legalmente sicuri sono invece i Balcani: Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro, Serbia e la stessa Albania. L’unico Paese africano è Capo Verde. Ma l’arcipelago dell’Oceano Atlantico, circa mezzo milione di abitanti a 500 chilometri dalle coste del continente, è sulla rotta del Mediterraneo occidentale, e chi rischia la vita in mare punta alle Canarie. Non solo: tra le principali destinazioni europee dei capoverdiani ci sono Portogallo, Francia e Paesi Bassi, ma non l’Italia. Nel nostro paese le richieste d’asilo presentate dai cittadini di Capo Verde non sono mai più di 5 l’anno (dati Eurostat). Solo il 2018 ne ha contate di più, tra le 5 e le 10.

Secondo i dati del Viminale, invece, tra i primi dieci Paesi d’origine per numero di sbarchi nel 2024, solo Tunisia, Gambia, Egitto e Bangladesh fanno parte della lista dei “sicuri”. Gli ultimi due sono stati inseriti solo lo scorso maggio dal governo Meloni, accusato di dichiarare sicuri Paesi che non lo sono col solo scopo di aumentare le procedure accelerate e riempire così i centri albanesi. Sforzo che la Cgue ha appena vanificato chiarendo che le regole vigenti non ammettono la designazione di Paesi parzialmente sicuri. Come il Bangladesh, primo per sbarchi con 10 mila arrivi nel 2024, dove sono a rischio “persone LGBTQI+, vittime di violenza di genere, incluse le mutilazioni genitali femminili, minoranze etniche e religiose, persone accusate di crimini di natura politica e condannati a morte”, scrive nella scheda allegata alla lista il ministero degli Esteri. Che “segnala anche il crescente fenomeno degli sfollati “climatici”, costretti ad abbandonare le proprie case a seguito di eventi climatici estremi”. Quanto all’Egitto, quarto con 3.228 sbarchi quest’anno dopo Siria e Tunisia, il ministero non lo considera sicuro “per gli oppositori politici, i dissidenti, gli attivisti e i difensori dei diritti umani o per coloro che possano ricadere nei motivi di persecuzione”. E così la Tunisia, terza con 6.916 sbarchi, che per la Farnesina non è sicura per persone LGBTQI+, e perfino il Gambia, che di arrivi via mare ne conta appena un migliaio e tuttavia non può considerarsi Paese sicuro perché, dice il nostro governo nella relativa scheda, non lo è per molti, dalle “vittime o potenziali vittime di mutilazioni genitali femminili, tratta e discriminazione di genere, fino ai disabili e ai detenuti”.

Magra soddisfazione, se il governo deciderà comunque di procedere al trasferimento di egiziani, tunisini, bangladesi e gambiani nei centri albanesi, a liberarli perché privi del requisito essenziale della provenienza da Paese sicuro dovranno essere i giudici italiani, in particolare quelli del Tribunale di Roma, competente per i trattenimenti in Albania. Non è un optional: la Corte Ue ha infatti stabilito che i giudici nazionali sono tenuti d’ufficio a verificare la legittimità della designazione di un paese come sicuro. Mancando il requisito dell’origine da Paese sicuro, i giudici dovranno liberare i richiedenti con effetto immediato. Ma stavolta Meloni e soci non potranno gridare al sabotaggio della magistratura come per le ordinanze dei giudici di Catania, a meno di non volersela prendere direttamente con la Corte di giustizia dell’Unione europea. Del resto, ha sempre assicurato Palazzo Chigi, “il protocollo Italia-Albania non viola il diritto dell’Unione“. Se il governo decidesse invece di violarlo, alle mancate convalide dei magistrati di Roma seguirebbe l’obbligo, previsto dall’accordo con Tirana, di portare i richiedenti in Italia. Uno strappo inutile, dunque, ma soprattutto costoso, visto che la spesa prevista per i primi cinque anni supera i 700 milioni di euro, e solo per la nave che farà la spola tra le acque internazionali a sud di Lampedusa e il porto albanese di Shengjin si è calcolato di spendere 13,5 milioni di euro in appena tre mesi. Meglio i capoverdiani, a trovarli.