di Roberto Iannuzzi *

Il 7 ottobre ha segnato un punto di non ritorno. Non l’abbiamo ancora capito.

Quel tragico giorno in cui Hamas ed altri gruppi armati palestinesi hanno assaltato avamposti militari e insediamenti israeliani – provocando 1139 morti, inclusi 71 stranieri, secondo il bilancio ufficiale – il tempo per una soluzione pacifica della questione palestinese era già scaduto.
Quel giorno abbiamo soltanto assistito alla drammatica quanto (prima o poi) inevitabile esplosione.

All’indomani di quel traumatico evento, la Casa Bianca e i governi europei hanno ricominciato a parlare di soluzione dei due Stati, come hanno fatto ad ogni precedente esplosione di violenza in Palestina (salvo poi archiviare il problema fino alla crisi successiva). Una soluzione che il premier israeliano Benjamin Netanyahu rifiuta apertamente non da oggi, ma da almeno un decennio (e che il suo partito, il Likud, ha respinto fin dalla sua fondazione). Malgrado ciò, tale appello viene reiterato ancora adesso dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen (di nuovo come mera formula retorica), dopo un anno di guerra che ha ridotto l’intera Striscia di Gaza a un cumulo di macerie ed ha letteralmente incendiato il Medio Oriente.

E’ grottescamente anacronistico ripetere trite formule mentre la storia galoppa irrefrenabilmente. Semmai si dovrebbe tentare di limitare i danni, compiendo ogni sforzo per giungere a un cessate il fuoco a Gaza, elemento chiave per contenere il rogo regionale. Invece di promuovere tali sforzi, in particolare fermando l’incessante flusso di armi proveniente da Usa ed Europa che alimenta le operazioni militari israeliane nella Striscia, si ripete ipocritamente una formula che era svuotata di significato ben prima del 7 ottobre.

Gli accordi di Oslo del 1993 che avrebbero dovuto portare alla nascita di uno Stato palestinese, non aprirono la strada al progressivo ritiro militare israeliano, ma al contrario fecero da premessa ad un’impressionante proliferazione di nuovi insediamenti, alla confisca di nuovi territori ed alla costruzione di strade esclusivamente dedicate ai coloni israeliani. Lo stesso primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, promotore e firmatario degli accordi, chiarì nel 1994 il suo pensiero in proposito: “Non accettiamo l’obiettivo palestinese di uno Stato indipendente tra Israele e Giordania. Riteniamo che esista un’entità palestinese separata che non sia uno Stato”.

Ormai, almeno 700.000 coloni israeliani vivono nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme Est. Nel frattempo, la Striscia di Gaza è stata sottoposta ad almeno 17 anni di soffocante assedio economico e di punizione collettiva. Questi anni sono stati intervallati da ricorrenti cicli di ostilità, volti a reprimere Hamas, l’organizzazione che governava l’enclave, evitando però di provocare un collasso della sua struttura amministrativa – una strategia denominata “tagliare l’erba” dai vertici militari israeliani.

Dopo i tragici fatti del 7 ottobre, l’operazione israeliana a Gaza ha provocato una catastrofe: quasi 42.000 palestinesi uccisi, in maggioranza donne e bambini, ed oltre 97.000 feriti (cifre probabilmente sottostimate a causa del gran numero di dispersi e di cadaveri rimasti intrappolati sotto le macerie). Quasi l’intera popolazione di Gaza è ormai composta da sfollati i quali, dopo aver abbandonato le proprie abitazioni, hanno dovuto fuggire ripetutamente anche dai loro ricoveri di fortuna.

Migliaia di palestinesi sono stati imprigionati arbitrariamente e sottoposti a tortura ed altri trattamenti disumani. In Cisgiordania, il sempre più sproporzionato ricorso alla forza da parte dell’esercito israeliano (inclusi i bombardamenti aerei), assieme alle demolizioni ed alla violenza dilagante dei coloni (un fenomeno accentuatosi con l’insediamento dell’ultimo governo Netanyahu e drammaticamente degenerato dopo il 7 ottobre), hanno causato quasi 900 morti dal gennaio 2023 (inclusi circa 200 bambini), distruzioni ed espulsioni forzate.

La durissima operazione militare israeliana a Gaza ha provocato la reazione di Hezbollah in solidarietà con Hamas dal Libano, aprendo così un fronte settentrionale per Israele. A cui bisogna aggiungere quello apertosi con gli Houthi (Ansar Allah) nello Yemen, e i continui bombardamenti israeliani in Siria.

Gli omicidi mirati israeliani di dirigenti di Hamas, Hezbollah, e di alti ufficiali della Guardia rivoluzionaria iraniana a Beirut, in Siria, e perfino a Teheran, culminati con l’assassinio del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, con l’avvio di una violentissima campagna di bombardamenti sul Libano e con l’invasione del paese, hanno suscitato la rappresaglia iraniana che ha portato i missili di Teheran nei cieli d’Israele. Dovrebbe essere evidente che l’escalation regionale in atto è potenzialmente incontrollabile. Com’è stato sottolineato da diversi osservatori (anche israeliani), questa guerra rischia di distruggere la stessa società d’Israele.

Il conflitto è infatti destinato ad accelerare due fenomeni correlati, che precedono il 7 ottobre: la deriva etno-nazionalista del paese, e la crescente emigrazione di quella minoranza che gestisce il settore dell’hi-tech, il motore dell’economia israeliana. Nel frattempo in Israele restano aperti enormi interrogativi sul fallimento di sicurezza e d’intelligence che ha permesso l’attacco di Hamas di un anno fa. I responsabili di quel fallimento sono gli stessi che stanno conducendo questa guerra.

L’angosciosa sensazione è che né Washington né i leader europei abbiano un’effettiva comprensione di quanto sta accadendo, e tantomeno l’intenzione di compiere sforzi reali per cercare di arrestare la catastrofe.

*Autore del libro “Il 7 ottobre tra verità e propaganda. L’attacco di Hamas e i punti oscuri della narrazione israeliana” (2024).

Twitter: @riannuzziGPC
https://robertoiannuzzi.substack.com/

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