Mi chiamo Dario, sono nato l’11 ottobre del 1973 e ho 51 anni, compiuti proprio oggi. Non lo dico per dichiarare la mia età o per ricordare la data del mio compleanno, ma perché quest’ultima ricorrenza coincide con il Coming out day, il giorno della visibilità delle persone Lgbtqia+. E per chi come me è anche un attivista, oltre tutto il resto, questo giorno assume una rilevanza particolare.
Se il caso mi ha fatto nascere nel giorno della visibilità delle comunità queer, la decisione di dichiararmi gay è stata un atto di rinascita. Non è stato, fino a qualche anno fa, qualcosa che avveniva senza prendere fiato. Anzi, prima di rivelare la mia identità psichica e sessuale, il mio respiro era a metà. Se ne accorse la mia psicologa: “Hai il respiro bloccato”, mi rivelò. Il mio petto si muoveva poco. È stato il riflesso di anni e anni a misurare le parole, a studiare le concordanze tra nomi o aggettivi. Non parlavo di “quel ragazzo” che mi piaceva, ma di “quella persona”. Un indistinto che, mi illudevo, mi avrebbe protetto dallo scherno degli altri. Un indistinto che mi cancellava.
Poi ho vinto la paura ed è successo qualcosa che definirei, con Jodorowsky, un atto psicomagico. Prima c’erano le micro-aggressioni a scuola, gli insulti per strada, gli occhi beffardi di chi si sentiva libero o in dovere di offendermi. Il maschile non è casuale. Quando invece ho deciso che la mia dignità non poteva essere svenduta per quella moneta di scarso valore e ho fatto coming out, quei fantasmi sono spariti. Dissolti nell’inconsistenza di un odio che conferisce identità, ma che toglie umanità. In primo luogo, a chi lo avalla.
I miei primi coming out avevano una premessa sottaciuta. C’era una giustificazione in sottofondo. Avevo paura di non essere accettato, che qualche amicizia sarebbe potuta finire. Poi le cose sono andate diversamente. Sono anche stato fortunato, lo ammetto. Nessuna delle persone a cui tenevo ha cambiato atteggiamento nei miei confronti. Ma mentirei se dicessi che nulla è cambiato. Perché la trasformazione, dopo, è diventata un atto collettivo. Un passo alla volta, certo. Andando per tentativi e qualche errore. Ma il sentiero era tracciato. E il respiro, se ve lo steste chiedendo, si è sciolto.
Adesso, quando conosco gente nuova, non dichiaro nulla. Mi limito a essere semplicemente me stesso. Un giorno, in una scuola a Roma, parlando con una collega le dissi, a proposito di un personaggio famoso: “Ammazza che bono!”. Lei sgranò gli occhi, ma non disse nulla. Non si aspettava, forse, quell’assunzione di normalità. Costruimmo un rapporto in cui non c’era il velo di cose dette a metà, di concordanze da sorvegliare. La storia di ogni singolo coming out, almeno questa è la mia esperienza, è anche la storia di un’evoluzione. Interiore, in primis. Ma che produce un cambiamento nel mondo che ti circonda.
Credo che sia per questa ragione che gli omofobi hanno un problema ad accettare che le persone queer possano raccontarsi e definirsi: quando la tua identità si basa sull’odio per ciò che non puoi comprendere, la verità di chi decide di non avere paura può essere destabilizzante. Perché rende un mondo fatto di barzellette cretine e di narrazioni bugiarde un posto più angusto, ristretto. Deve essere difficile vivere come una sardina in una latta di ignoranza e malafede. Eppure, al tempo stesso, può essere un momento di liberazione. Anche per chi quelle due paroline – sono gay – non deve pronunciarle.
Il coming out, infatti, è un atto di salute pubblica. Mette in contatto le persone con una realtà più ampia, dove chiunque può decidere di vivere la propria specificità senza i legacci di una norma che impone ruoli e, di conseguenza, destini. Per questo non piace a certa destra (ciao Giorgia). Una società che accoglie predispone un mondo dove l’alterità non è una minaccia, ma un’occasione di opportunità. Vivremmo probabilmente in un mondo con meno odio pronto a scorrere tra le vene. Pronto a irrorare pensieri e azioni.
Non è ancora facile fare coming out, me ne rendo conto. Ancora oggi molte persone, adolescenti e non, rischiano discriminazioni, violenza, l’allontanamento dal nucleo familiare, la perdita del lavoro. A volte anche l’incolumità o addirittura la vita. Per questo deve essere un atto fatto in assoluta libertà, quando i tempi sono maturi. Ma l’unico consiglio che mi sento di dare a chi sta leggendo, e che forse si interroga su quali passi fare, è quello di non avere vergogna alcuna. Sono le nostre azioni che raccontano chi siamo davvero. E saranno le nostre scelte a dimostrare chi diventeremo un giorno.
Non abbiate paura di scegliere, tra quell’odio a cui accennavo e la parte più vera di noi, ciò che ci fa somigliare davvero all’idea che abbiamo di noi. Non abbiate paura di essere persone libere. Di essere felici. Un passo alla volta.