di Leonardo Botta

Quand’ero studente stampammo con gli amici un giornalino che distribuimmo nell’edicola del paese. L’incipit di uno degli articoletti che ci eravamo divertiti a comporre era: “Da un’attenta analisi eziologica dei complessi e delle idiosincrasie blenorragiche…”, subito emendato da un “scusate il termine, ma suonava bene”. Facevamo il verso a quella colta “supercazzola” (attribuita a diversi autori) che girava nell’ambiente universitario e che ci divertivamo a declamare tra noi: “La vita è la palingenetica obliterazione dell’io cosciente che si immedesima e si infutura nell’archetipo-prototipo dell’antropomorfismo universale, in un contubernio di stoiche ed eziologiche faziosità” (che alla fine traducevamo più prosaicamente in: “la vita è una stron*ata!”).

Eh sì, inevitabilmente a questi ricordi mi ha condotto l’ascolto del discorso programmatico presentato dal neo ministro Alessandro Giuli in Parlamento. Dirò subito che ho una sincera simpatia per i modi garbati di Giuli. E il suo forbito ragionamento (del quale, per i limiti intellettivi di chi ha seguito studi tecnici, di prim’acchito avevo capito poco) mi ha ricordato le pindariche riflessioni del Nichi Vendola dei tempi migliori, diventate celebri anche per le esilaranti parodie di Checco Zalone.

Ho provato a immaginare cosa passasse per la testa di Giuli quando ha deciso di strutturare in tal modo il suo intervento alla Camera. E ho concluso che delle diverse, l’una:

– Memore degli sberleffi rovesciati in quantità industriale addosso al predecessore, Gennaro Sangiuliano, per le sue innumerevoli gaffe, il nuovo ministro della Cultura ha pensato di spiazzare l’uditorio con un articolato di concetti così arzigogolato, anche se molto sensato e robusto (di questo dirò dopo), che ai più sarebbe apparso a dir poco astruso. Un modo, insomma, per confondere, interdire l’interlocutore; un po’ come immagino avesse provato a fare contro i nemici re “Franceschiello” Borbone quando, secondo la tradizione, alla sua ciurma in battaglia ordinò di fare “ammuina” (“Quelli che stanno a poppa vanno a prora, quelli che stanno a prora vanno a poppa”); o come intendeva preparare le partite Oronzo Canà, mitico allenatore della Longobarda, quando spiegava ai propri calciatori lo schema 5-5-5 (“I cinque attaccanti vengono dietro e i cinque difensori vanno avanti, così gli altri non ci capiscono niente!” – “Neanche noi!”, gli faceva notare il suo centravanti Speroni);

– Animato da una pur comprensibile e umana vanità, Giuli voleva semplicemente fare sfoggio di eloquenza per raccogliere l’altrui ammirazione (mi viene in mente il prof. Bellavista – alias Luciano De Crescenzo – adulato da Salvatore, il vice-sostituto portiere del suo condominio, durante le sue lezioni di filosofia: “Prufesso’, quanno parlate io nun capisco cchiu niente: vuje m’ipnotizzate!”);

– Più sottilmente, nell’era dei social e dell’interazione compulsiva voleva si parlasse (e scrivesse) di lui ai quattro angoli del paese (“bene o male purché se ne parli”, si sarebbe vantato il buon Wilde).

Ciò detto, devo riconoscere che il senso del discorso del ministro, tra citazioni e parafrasi di Hegel, “infosfere globali” e apocalittismi difensivi, è sicuramente interessante, per esempio quando s’interroga sull’atteggiamento dell’uomo (delle vecchie e nuove generazioni) rispetto al fenomeno della “ipertecnologizzazione” tra due opposti rischi: l’eccessivo e acritico entusiasmo da una parte, il piagnucoloso rimpianto dei tempi andati dall’altra. Insomma, a me Giuli alla fine è piaciuto, anche perché mi ha spinto ad approfondire il significato di qualche vocabolo.

Ho solo una critica da muovergli, tirando in ballo di nuovo Vendola: l’ex presidente pugliese parlava a braccio, mentre qui Giuli leggeva, col capo chino sui fogli, seguendo fedelmente le singole sillabe di quel testo preconfezionato e pronunciando quei concetti, secondo me, con scarsa enfasi oratoria. Questa, con tutto il rispetto, non mi pare mancanza da poco.

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