Quando ero all’inizio della mia militanza sindacale, una delle prime cose che mi vennero insegnate era di contrastare il salario in nero, cioè la paga data ai lavoratori senza tasse e contributi. Anche i lavoratori a volte erano tentati da questa insidia del padrone, che spiegava che essa era molto più conveniente, perché così si prendevano più soldi.

Allora la prima cosa che noi spiegavamo ai lavoratori era che il loro salario complessivo era quello lordo, che anche le tasse e i contributi erano loro soldi, e che quelli in nero ricevuti oggi erano pensioni in meno domani. Solo il padrone ci guadagnava, perché la sua apparente generosità nascondeva un risparmio sulla busta paga che finiva nei suoi profitti: pagava gli aumenti ai lavoratori coi soldi dei lavoratori.

Nel corso di questi decenni di trionfo dell’ideologia liberista e dei suoi interessi di classe, il salario dei lavoratori è diventato “costo del lavoro”. Cioè il lavoro, invece che essere la fonte del guadagno delle imprese, diveniva per esse un semplice costo. Povero padrone, egli manteneva i suoi dipendenti per puro altruismo, ma quanto gli pesavano!

Mentre i salari sprofondavano, valenti esperti, quasi tutti i politici e anche sindacalisti compiacenti facevano propria la spiegazione confindustriale di questo fenomeno. Esso non era dovuto, come si sarebbe potuto supporre, alla distruzione dei diritti dei lavoratori, alla precarietà, alla troppa moderazione dei grandi sindacati, no: il calo dei salari era dovuto alla crescita insopportabile del costo del lavoro. Era una falsità che diventava economia, politica e persino senso comune.

Secondo i dati Istat, l’incidenza media del costo del lavoro sul fatturato delle imprese manifatturiere è attorno al 15%, in imprese come Stellantis arriva all’8%. Quindi l’incidenza della paga lorda del lavoratore sul bilancio delle imprese è tra le più basse del mondo Ocse. Non solo il salario netto è tra i più bassi tra i paesi sviluppati, ma anche quello che le imprese chiamano costo del lavoro lo è.

Poi si aggiunge l’iniquità del sistema fiscale che tutti conosciamo: lavoratori dipendenti e pensionati pagano da soli l’85-90% dell’Irpef. Quindi sarebbe stato giusto ridurre strutturalmente le tasse sulla busta paga del lavoratore, facendo pagare di più in proporzione ai ricchi in base al loro patrimonio reale. E naturalmente aumentare davvero i salari. Invece non è andata così. Tutti i governi, da Renzi in poi, hanno pensato di far avere ai lavoratori incrementi parziali delle buste paga riducendo i contributi previdenziali e qualche tassa, ma lo hanno fatto allo stesso modo del padrone che dà la paga in nero. Tutto questo è stato chiamato “riduzione del cuneo fiscale”, cioè far crescere apparentemente il salario netto del lavoratore, riducendo tasse e contributi pensionistici pagati dal padrone.

Non c’è stata alcuna giustizia fiscale, le timidissime riduzioni delle tasse sulla busta paga non sono state compensate da un aumento della pressione fiscale sui profitti e sulla ricchezza accumulata degli imprenditori, anzi: essi hanno goduto di ben più poderosi sgravi fiscali. Pensiamo alla riduzione dell’aliquota, o addirittura a casi di totale esenzione, dell’Irap, la tassa regionale con cui si finanzia la sanità. Insomma i pochi euro di aumento apparente delle retribuzioni dei lavoratori sono stati finanziati da loro stessi; e sono stati poi pagati con il peggioramento o il maggior costo di tutti i servizi pubblici. Per dirla con il linguaggio di una volta, un piccolo aumento del salario netto è stato pagato da una forte riduzione del salario sociale.

Oggi il taglio del cuneo fiscale si identifica sostanzialmente con la riduzione dei contributi pensionistici. Cioè il lavoratore riceve qualche decina di euro in più al mese in cambio di minori versamenti all’Inps. Mancati versamenti che o sono coperti dallo stato o creano un buco previdenziale il cui danno ricadrà sui lavoratori stessi.

La Banca d’Italia ha chiarito che questa operazione costa 11 miliardi all’anno, che diventeranno in proporzione meno pensioni o meno servizi pubblici, se lo stato dovrà ripianare l’ammanco. E tutto questo mentre gli impegni assunti dal governo Meloni con Bruxelles impongono 13 miliardi di tagli alla spesa pubblica all’anno, per tutti i prossimi anni. Insomma tutta l’operazione di riduzione del costo del lavoro, e del taglio del cuneo fiscale, è una truffa ai danni delle lavoratrici e dei lavoratori. Perché si aumenta la busta paga del lavoratore con i suoi stessi soldi. Perché si assolvono le imprese dal dovere di aumentare davvero le retribuzioni. Perché si colpiscono le pensioni, la sanità, i servizi pubblici.

Per aumentare i salari bisogna davvero aumentare i salari, netti e lordi. E non a caso i più accesi fautori della riduzione del cuneo fiscale sono anche i più fieri avversari del salario minimo di legge. E se si vogliono davvero la giustizia fiscale e distributiva, si facciano pagare le tasse ai ricchi e agli evasori, invece che finanziare gli aumenti dei salari con i soldi dei lavoratori.

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