Nel flusso di notizie tragiche dal Medio Oriente, uno degli aggiornamenti più significativi dell’ultima settimana è stato il rifiuto, lo scorso 6 ottobre, del contingente irlandese dell’Unifil, la forza di interposizione delle Nazioni Unite in Libano, di stanza nel sud del Paese, di assecondare la richiesta dell’esercito israeliano di evacuare la postazione dei peacekeeper irlandesi, noto come Post 6-52, a circa due chilometri da un’area di intensi scontri armati fra l’IDF ed Hezbollah, lunga la linea Blu di confine fra il Libano e Israele.

Il No è arrivato sia dal comando Unifil che dal governo irlandese, che hanno chiarito come ogni decisione riguardante il dispiegamento delle truppe spetti esclusivamente all’ONU, non a Tel Aviv. L’attuale primo ministro irlandese Simon Harris ha condannato come ‘sconsiderato’ ogni attacco in prossimità dei peacekeepers. Nel frattempo l’Idf ha sparato su altre postazioni, aprendo un fonte di scontro diretto con le Nazioni Unite che ha portato ad iniziative diplomatiche bilaterali e di cui non è ancora noto l’esito. Gli irlandesi, come gli altri plotoni del contingente Unifil stanno ottemperando ad un mandato internazionale: non possono di fatto combattere Hezbollah o impedirne le attività militari e paramilitari, ma assolvono compiti di perlustrazione, osservazione e denuncia sui cui nessun paese, incluso Israele, ha alcuna giurisdizione.

È importante però soffermarsi sulle ragioni culturali e politiche del No irlandese, che in patria ha trovato un vasto sostegno popolare. L’Irlanda è fra i 10 Paesi dell’Unione europea che riconoscono lo Stato palestinese: Dublino e Madrid hanno inviato un forte segnale politico annunciando il riconoscimento il 28 maggio, cioè nel pieno dell’invasione israeliana di Gaza. Ma l’Irlanda è anche uno dei Paesi al mondo, e forse il maggiore fra quelli occidentali, dove il supporto alla Palestina è più diffuso. Sostegno storico: è stato il primo Paese membro dell’Unione Europea a chiedere il riconoscimento dello Stato palestinese, fin dal 1980, e l’ultimo a concedere, solo nel 1993, il permesso a Israele di aprire un’ambasciata.

I politici irlandesi sono stati durissimi nella condanna delle azioni israeliane dopo il 7 ottobre: nel febbraio scorso, quando era ancora Primo ministro, Leo Varadkar del partito di centro Fine Gael aveva parlato di un Israele “cosí accecato dalla rabbia da non ascoltare nemmeno gli Usa”; la leader del Labour ha difeso la popolazione civile di Gaza parlando di una Armageddon in corso, e proponendo la fine degli scambi commerciali con i territori occupati; e Dublino non ha mai sospeso gli aiuti alle Nazioni Unite, come fatto da altri stati dopo le denunce, mai provate, di complicità di alcuni dipendenti UNRWA con Hamas. A fine settembre, l’ambasciatore di Israele in Irlanda aveva accusato la politica del Paese di ‘spargere odio contro lo stato di Israele”. Ma i politici riflettono l’opinione pubblica.

Sono numerosissime le testimonianza di palestinesi accolti a braccia aperte da cattolici irlandesi fin dagli anni Settanta, quando erano una rarità: il retroterra comune è la sofferenza subita da una potenza occupante. Fino al 1921, l’Irlanda era brutalmente occupata dagli inglesi: la memoria di quella brutalità, non ancora dissolta, fa da collante fra i due popoli. Un reportage della NPR ricostruisce questo legame attraverso la testimonianza di Fatin Al Tamimi, attivista dei diritti palestinesi e organizzatrice delle marce pro-Palestina successive ai massacri di Hamas del 7 ottobre. Quando gira con la keffiya o grida Palestina Libera non rischia ostilità e arresto, come in Germania, ma riceve abbracci e sostegno pubblico. Come tanti altri. Questo legame ha radici storiche e culturali profonde, e ancora vive.

Sempre questa settimana ha rassegnato le dimissioni dalla Columbia University quello che è considerato il maggior storico vivente sulla questione palestinese, Rashid Khalidi, già titolare della Cattedra Edward Said di storia moderna araba. La sua biografia è intrecciata con quella palestinese: la famiglia fra le più antiche di Gerusalemme, la loro casa sede di una delle più complete biblioteche arabe della città, il nonno uno dei primi, fin dai primi del Novecento a inquadrare il sionismo come un movimento di espropriazione dell’identità palestinese e a cercare di evitare questo esito con mezzi pacifici. Rashid ha gli anni della Nakba, 76, ed è nato a New York perchè i genitori, che vi si trovavano per ragioni di lavoro, proprio a causa della Nakba non sono potuti tornare.

Le circostanze delle sue dimissioni sono un trattato di storia contemporanea: nella lettera di dimissioni, ha denunciato la deriva mercantile dell’accademia Usa, da cui si ritira disgustato. Ma ha anche indicato la direzione dei futuri studi: il suo prossimo libro sarà incentrato sull’Irlanda, considerata il “laboratorio per la Palestina”. Secondo quanto riporta il Guardian in questo imperdibile ritratto, un soggiorno di studio al Trinity College di Dublino ha portato Khalidi a valutare che, per comprendere la Palestina, sia “necessario valutare il colonialismo inglese in una prospettiva ampia”.

Nel saggio intende esaminare le figure chiave dell’aristocrazia inglese formatesi nella sanguinaria repressione del movimento di indipendenza irlandese, da Arthur James Balfour, l’artefice della dichiarazione che per primo portò alla spartizione del territorio storico palestinese a sostenitore del movimento sionista ai suoi albori, e altri personaggi centrali del colonialismo inglese come Sir Charles Tegart e il Generale Frank Kitson, nomi che ancora risuonano come massacratori nella psiche collettiva irlandese. “Spera di dimostrare come l’esperienza irlandese sia stata esportata in India, Egitto e Palestina, e poi, dopo essere stata perfezionata nelle colonie, reimportata in Irlanda durante i Troubles”. Dice: “È sorprendente, le tecniche organizzative e di controinsurrezione, come la tortura e l’assassinio, trovino le loro radici [nell’occupazione britannica] in Irlanda”.

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