A 90 giorni dalla sentenza d’appello con cui i giudici hanno assolto tutti gli imputati, sono state depositate le motivazioni. Secondo i magistrati della Corte d’assise d’appello di Roma contro la famiglia Mottola, i cui componenti erano stati processati e assolti con l’accusa di omicidio volontario nei confronti di Serena Mollicone anche in primo grado, l’impianto accusatorio era inconsistente. Nelle 59 pagine di motivazioni i giudici spiegano perché l’ex comandante della stazione dei carabinieri di Arce, Franco Mottola, la moglie Annamaria e il figlio Marco, non sono responsabili dell’omicidio per cui il sostituto procuratore generale aveva chiesto le condanne: 24 anni per l’ex sottoufficiale e 22 per gli altri due familiari. Inoltre nelle motivazioni viene smontata completamente, quella secondo cui, una delle porte dell’alloggio di servizio sarebbe stata l’arma del delitto. Secondo il Ris le tracce di legno sul nastro adesivo che avvolgeva il capo della vittima, trovata morta il 3 giugno 2001 in un boschetto, erano compatibili con la porta della caserma.

“Il convincimento dei giudici non può e non deve fondarsi sui sondaggi o sugli umori popolari e non può escludersi che le prove, invece, ci siano, e che questo Collegio non abbia saputo valorizzarle e questo lo dirà, eventualmente, la Suprema Corte” si legge nelle motivazioni del verdetto che ha assolto anche i carabinieri Vincenzo Quatrale e Francesco Suprano. I giudici del secondo grado, hanno evidenziato anche “questo Collegio ha ‘largheggiato’ nell’applicare il disposto dell’art.603, comma 3 bis, cpp, ma deve constatare che la rinnovata istruzione dibattimentale ha lasciato sostanzialmente immutato il quadro probatorio. In tale situazione, non può che confermarsi l’incertezza e la contraddittorietà degli elementi per affermare la responsabilità degli imputati Mottola”.

“Non vi è certezza che la barbara uccisione della povera Serena sia avvenuta nella caserma dei Carabinieri di Arce: non è certo che la ragazza sia entrata in quel luogo, non è certo che sia stata scagliata contro la porta, ancora più incerto è che la seconda parte dell’aggressione alla sua persona (quella, letale, dell’imbavagliamento e dell’asfissia) sia avvenuta nella stessa Stazione”. Secondo i giudici della corte d’Assise d’Appello di Roma, presieduti da Vincenzo Gaetano Capozza, la “Corte ritiene di non avere le prove della colpevolezza degli odierni imputati e sa che una sentenza di colpevolezza sarebbe costruita su fondamenta instabili” e “non può albergare la polemica frase (scritta, peraltro, cinquant’anni fa, in un articolo di analisi storico-politica, non giudiziaria) di un noto intellettuale: “Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi”. Manca la prova del movente che si è rivelato “evanescente” e il “compendio probatorio complessivamente insufficiente e contraddittorio, impedisce di individuare gli imputati Mottola, o alcuno di loro, quali responsabili dell’omicidio di Serena Mollicone”

“Tutti gli appellanti si sono soffermati sui comportamenti tenuti dal maresciallo Mottola prima e al di fuori della sede processuale, attribuendogli veri e propri atti di depistaggio. Va subito detto che, ad alcune ‘storture’, avvenute nel corso delle indagini, tale imputato non ha affatto contribuito”. Scrivono ancora i giudici: “L’errore di alcune cifre del numero telefonico del figlio Marco in sede di richiesta dei tabulati telefonici è una defaillance verificatasi quando le indagini erano svolte dalla Polizia” aggiungono poi che “il ‘prelevamento’ di Guglielmo Mollicone (percepito come atto volto a seminare sospetti di un delitto maturato in ambito familiare) dalla chiesa in cui si stava svolgendo una veglia funebre per Serena è stato disposto dal Comando provinciale dei Carabinieri su imput della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Cassino. Non vi è poi alcuna prova, neanche indiziaria, che il telefono cellulare di Serena (ritrovato nella sua abitazione a seguito dell’ennesimo sopralluogo, dopo precedenti, accurate, negative, perquisizioni) sia stato introdotto dal Maresciallo o su sua istigazione”.

Si legge ancora nelle 59 pagine di motivazioni della sentenza che “altrettanto dicasi per la scomparsa di alcuni organi interni del corpo di Serena” “in merito alla presunta sottovalutazione da parte della sentenza impugnata delle ‘anomalie’ intervenute nella fase delle indagini e delle contraddizioni contenute nelle dichiarazioni degli imputati. Peraltro, la Corte di primo grado non ha affatto evitato di confrontarsi con le disarmonie dei racconti degli imputati e con gli aspetti asseritamente o realmente distonici nella conduzione delle indagini. Rimangono, comunque, forti sospetti che comportamenti decisamente ‘irregolari’ (in primis le mancate verbalizzazioni), stigmatizzati dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Cassino e dai vertici dell’Arma in vista del trasferimento del sottufficiale siano stati qualcosa di più e di diverso di condotte professionalmente maldestre”.

Le motivazioni della sentenza d’appello “riconoscono la nullità, l’inconsistenza e la totale incertezza dell’impianto accusatorio e di fatto danno pienamente ragione al lavoro della difesa degli imputati e della difesa dei Mottola, sia alle nostre fortissime e giuste critiche all’impianto accusatorio ed alla metodologia delle indagini, sia al nostro lavoro del tipo analitico, logico-investigativo, forense, criminalistico, criminologico e di diritto. La sentenza – ha spiegato in una nota il coordinatore del pool della difesa dei Mottola il criminologo e professor Carmelo Lavorino – ha dato ragione alla difesa degli imputati che Serena non è entrata in caserma per andare da Marco Mottola, che la porta non è l’arma del delitto, che la prova scientifica portata dall’accusa né è prova e né è scientifica, che contro gli imputati vi sono stati sospetti basati sul nulla, che gli indizi di sono sciolti come neve al sole. Un affettuoso pensiero alla povera Serena Mollicone e ai suoi famigliari con l’auspicio che finalmente le indagini vadano a puntare i veri colpevoli (e noi siamo pronti a collaborare in tal senso)”.

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