Vogliono “costringerla a ritirarsi” per non avere “testimoni scomodi“, hanno commentato ieri fonti anonime della sicurezza italiana. Di certo sono state molte le provocazioni, quando è andata bene. Colpi di mortaio o bombardamenti dal cielo, nei casi peggiori. In 46 anni i rapporti tra la missione Unifil e Israele sono sempre stati difficili e Tel Aviv non ha mai fatto mistero di mal tollerare il contingente inviato dalla comunità internazionale appena oltre confine con il Libano. Ora l’attacco sferrato dall’esercito israeliano alle due basi italiane e al quartier generale delle forze di pace a Naqoura riporta l’orologio alle tensioni intercorse tra le due parti nella sanguinosa estate del 2006.
L’escalation è iniziata pochi giorni fa. Qualche ora dopo che i primi soldati avevano superato il confine per condurre attacchi mirati contro postazioni di Hezbollah l’Onu ha parlato di “violazione della Risoluzione 1701“, l’Idf ha chiesto al contingente irlandese di rimuovere i suoi uomini dal posto 6-52 e ha diffuso video di tunnel attribuiti ai libanesi, specificando che erano stati rinvenuti nella zona di competenza dei caschi blu. Come a dire: ve li hanno costruiti sotto il naso. Qualcosa di simile era avvenuto a fine 2018 quando l’esercito di Tel Aviv aveva scovato alcune gallerie che sbucavano in territorio israeliano. Una di queste, aveva sottolineato il 4 dicembre il portavoce militare Ronen Manelis in conferenza stampa accanto al premier Benjamin Netanyahu, era “situato a pochi metri dalla postazione dell’Unifil e dalle pattuglie dell’Unifil il cui incarico è quello di far rispettare la risoluzione Onu 1701″.
Che negli anni non è stata rispettata da nessuna delle due parti. Il documento – che dopo la seconda guerra del Libano del 2006 ha rafforzato la missione nata nel 1978 – prevede al punto 8 “l’adozione di misure di sicurezza atte a prevenire la ripresa delle ostilità” e “l’istituzione, nella zona compresa tra la Linea Blu (il confine con Israele, ndr) e il fiume Litani, di un’area priva di personale armato, di posizioni e armi che non siano quelle dell’esercito libanese e delle forze Unifil”. Questo per prevenire gli attacchi verso il territorio israeliano. Su questo punto la missione non funziona: Hezbollah scaglia da anni i suoi razzi contro l’Alta Galilea, ha intensificato i lanci dopo il 7 ottobre e per Tel Aviv opera anche militarmente dall’interno dell’area delle operazioni Unifil. E Israele fa altrettanto: “Tra l’8 ottobre 2023 e il 30 giugno 2024 – rilevava l’Onu il 1° ottobre – l’Unifil ha rilevato 15.101 traiettorie, di cui 12.459 da sud a nord della Blue Line e 2.642 da nord a sud“.
A più riprese, negli anni, Tel Aviv ha puntato il dito contro la missione. Cominciò il 10 maggio 1985 il capo dello Stato Haim Herzog battezzandola come “inutile“. Stessa critica mossa ancora nel 2008 dal ministro della difesa Ehud Barak, solo poche settimane dopo che in un’intervista al Jerusalem Post l’ambasciatore di Israele all’Onu Danny Gillerman aveva insinuato che i soldati internazionali erano stati mandati in Libano “per distribuire cioccolatini o fare multe per infrazioni al codice stradale”.
Dall’altra parte della barricata, invece, si ritiene che Israele consideri le forze di interposizione come un fastidioso ostacolo. Qualche motivo era già emerso nel 1985 quando, dopo la seconda invasione del giugno ’82, Israele aveva proceduto a un parziale ritiro e si era opposto al dispiegamento della forza di pace lungo la frontiera: per il direttore generale degli Affari esteri David Kimche l’Unifil avrebbe “ostacolato azioni di rappresaglia nel caso di attacchi” dei libanesi.
Oltre alle parole, però, spesso sono arrivati anche i colpi di mortaio. Più volte l’artiglieria israeliana ha colpito i caschi blu, ferendo o uccidendo soldati come il 28 gennaio 2015, quando il caporale spagnolo Francisco Javier Soria Toledo, 36 anni, fu centrato da una granata vicino al villaggio di Ghajar durante una risposta dell’Idf a un attacco di Hezbollah. E in più occasioni il contingente è stato attaccato anche dall’Esercito del Libano sud, per lungo tempo alleato di Tel Aviv.
Proprio a causa di quest’ultimo nel 1989 si era arrivati per la prima volta vicino all’incidente diplomatico. Il 10 febbraio il colonnello norvegese J.E. Karlsen aveva criticato l’operato dell’Idf durante l’espulsione di 79 libanesi: “Durante la seconda guerra mondiale i miei connazionali hanno sacrificato le loro vite nella lotta contro i nazisti per impedire la deportazione di ebrei – aveva detto secondo le autorità di Tel Aviv -. Ora il vostro comportamento è esattamente quello dei nazisti“. Dieci giorni dopo due soldati di Oslo di pattuglia nel villaggio di Aichiye “venivano feriti gravemente dal fuoco di carri armati provenienti da postazioni dell’Idf o della milizia alleata di Israele dell’Esercito del Libano sud”, si legge nei rapporti dell’epoca.
Con il tempo le relazioni non sono migliorate. Anzi. Giusto 30 anni fa, sabato 8 ottobre 1994, la postazione di una unità irlandese nel villaggio di Braashite era stata colpita da 12 obici israeliani, compresi proiettili a frammentazione vietati dalla convenzione di Ginevra del 1949. E soltanto il 5 agosto 2000 i caschi blu erano riusciti a prendere posizione lungo la frontiera fra il Libano e Israele. Ma neanche dopo le cose sono andate meglio.
La tensione è salita negli anni, al punto che nel luglio 2006, nel pieno della seconda guerra mossa da Tel Aviv a Beirut, una pioggia di fuoco israeliano era caduto sulle postazioni Unifil. Il crescendo culminava il giorno 25, quando una bomba sganciata da un caccia della Israeli Air Force sul compound di Khiam uccideva 4 osservatori della missione. Al segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan che parlava di “azione deliberata” e il premier israeliano Ehud Olmert esprimeva il suo “profondo dolore“. La Finlandia chiedeva un’inchiesta, l’Austria condannava. Ma anche quella volta tutto era passato in cavalleria.