[Una premessa doverosa: nel prosieguo userò il termine “America” ma solo per comodità di esposizione. Quando si parla di Stati Uniti, dovrebbe appunto sempre usarsi la locuzione “Stati Uniti”, anche se gli statunitensi credono che Dio benedica la loro nazione, che presuntuosamente chiamano appunto “America”.]

Il regista canadese Denys Arcand diresse “Il declino dell’impero americano” e poi “La caduta dell’impero americano”. Titoli profetici che si adattano all’America dei nostri giorni, con i suoi 30.000 miliardi di dollari di debito pubblico, con i suoi 40 milioni di poveri, e, ad onta di ciò, il vecchio, persistente vizio di produrre armi per esportare nel mondo quella democrazia a cui non credono neppure più i bimbi, perché oramai il re è nudo. Ma la storia dell’America non è fatta solo di gente che massacra pellerossa, vietcong, iracheni, afgani, che fagocita colpi di Stato, oppure che mira ad accumulare ricchezze alla Paperon de Paperoni. Per fortuna, ad esempio, oggi c’è Daegan Miller.

E a questo punto tutti voi vi chiederete chi sia costui. Daegan Miller è uno studioso e scrittore statunitense che nelle sue note biografiche molto candidamente ma sentitamente ammette che vorrebbe che il mondo fosse verde, sano, giusto e libero. Ma che, evidentemente, rendendosi conto che esso non lo è, nel 2018 scrisse un libro A radical land. A natural history of American dissent, oggi meritevolmente tradotto e pubblicato dall’editore Black Coffee col titolo Quando il ramo si spezza. Una storia naturale del dissenso americano.

Come denuncia il titolo, Miller è andato alla ricerca di storie che andassero in direzione ostinata e contraria rispetto alle “magnifiche sorti e progressive” d’America. Del resto, Alexis de Tocqueville addirittura nel 1835 acutamente ebbe a scrivere: “Il popolo americano vede se stesso avanzare attraverso la natura selvaggia, prosciugando paludi, raddrizzando fiumi, popolando la solitudine e sottomettendo la natura”. È così che l’autore ci narra di un Henry David Thoreau diverso, che di mestiere faceva l’agrimensore, ma che realizzava mappe dal contenuto anticapitalista. Oppure tratteggia la storia di John Brown, bianco abolizionista, che andò a vivere con la famiglia nelle selvagge terre (ma cos’è poi la wilderness?) degli Adirondack, nello stato di New York, insieme ad altre famiglie di neri che coltivavano la terra.

Miller poi ci conduce per mano nel mondo delle immagini di A.J.Russell, il fotografo che a suo modo illustrò l’avanzata del progresso nelle sue terre. “A suo modo” perché le sue foto non celebrano, ma si limitano a guardare con un’angolazione diversa, come in quell’”Albero delle mille miglia”, che ancora resiste di fronte all’avanzata inarrestabile della ferrovia, simbolo appunto del progresso (il Sergio Leone di “Cera una volta il west” insegna). Arriviamo infine alla comunità socialista di Kaweah, che si stabilì nella foresta di sequoie della Sierra Nevada per promuovere un sistema sociale, economico e ambientale che sostenesse la vita umana tanto quanto quella non umana.

Il saggio si conclude con una triste carrellata sull’America di oggi, in cui si arriva addirittura a concepire una natura brevettata. Certo, è tutt’altro che l’America degli utopisti, ma perché non fare ciascuno nel suo piccolo qualcosa perché cambi? In fondo, come conclude Miller: “Cosa abbiamo da perdere?”.

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