di Marco Gambaro*

Uno degli effetti più dirompenti delle piattaforme digitali è quello di rivoluzionare i settori in cui operano, in parte sostituendo gli intermediari tradizionali, in parte ridefinendo il loro ruolo. Talvolta queste piattaforme connettono direttamente produttori e consumatori e provocano una vera e propria disintermediazione mettendo in crisi intere filiere che negli anni si erano stratificate.

Al tema delle piattaforme digitali e della loro pervasività è dedicato il ciclo di incontri organizzato dal Dipartimento di Economia e Management dell’Università Statale di Milano assieme alla Casa della Cultura, che va a indagare come queste piattaforme stiano ridefinendo il nostro modo di consumare cultura, gestire viaggi o interagire sui social media, mettendo in luce questioni come le economie di rete e l’uso dei dati personali. I prossimi appuntamenti sono previsti per lunedì 14 ottobre e lunedì 28 ottobre alle ore 18:00 presso Casa della Cultura in via Borgogna 3, Milano, oppure in streaming.

Le piattaforme però hanno diverse particolarità economiche che le rendono mercati un po’ diversi dagli altri. Innanzitutto in molti casi i costi sono prevalentemente fissi e consistono essenzialmente nello sviluppo del software e nel suo perfezionamento continuo. Questi costi non variano al crescere del numero degli utenti e creano economie di scala che favoriscono i primi operatori che entrano in un mercato e che crescono fino ad una soglia critica. Inoltre godono quasi tutte di economie di rete, cioè più la rete cresce più si alza l’utilità per i partecipanti. Ogni nuovo abbonato decide di aderire valutando i suoi costi e benefici individuali, ma con la sua partecipazione aumenta l’utilità che ha la rete per gli altri, come avviene ad esempio nella posta elettronica o nei social media.

Ambedue queste caratteristiche spingono verso la concentrazione del mercato dove solo pochi leader riescono ad emergere e per gli inseguitori è difficile raggiungerli. Queste caratteristiche economiche contribuiscono a spiegare perché in molti settori ci sono solo poche piattaforme leader a livello globale. Nei motori di ricerca Google ha solo un lontano concorrente in Bing; nei social media Meta e Tiktok, con Twitter/X lontano terzo; nel commercio elettronico Amazon è grande 3-4 volte il concorrente più vicino, se si esclude il mercato cinese, molto grande ma molto chiuso.

Le piattaforme digitali sono ormai un componente stabile delle nostre vite e un pezzo rilevante del sistema economico. Delle prime 10 società quotate a Wall Street, ben 7 sono piattaforme digitali e molte di queste non esistevano ancora una ventina di anni fa. Le piattaforme hanno cambiato il modo di cercare e consumare informazioni, hanno rimodellato intere filiere economiche e hanno abilitato attività e servizi che senza l’accelerazione digitale semplicemente non sarebbero stati possibili.

Le piattaforme digitali ridefiniscono e comprimono anche il ruolo degli intermediari tradizionali. Anche il settore giornalistico viene “colpito” dalla disintermediazione prodotta dalle piattaforme digitali. Nell’ambiente digitale infatti sono presenti molte più informazioni, la maggior parte prodotte non da media tradizionali. Spesso l’informazione semplice e fattuale tende a diventare una commodity disponibile in molti siti, per la quale i consumatori non sono molto disposti a pagare. Diverso è il ruolo di approfondimenti, inquadramenti, inchieste che però riescono a rimanere esclusive per poco tempo e dopo sono riportate e sintetizzate in molti altri siti.

Prima i giornalisti avevano l’esclusiva di stabilire quali avvenimenti diventano notizie e come devono essere inquadrati e spiegati. Inoltre si assiste ad un fenomeno di integrazione verticale discendente da parte di molte fonti che diffondono loro stesse informazioni che possono essere riprese o discusse, senza alcuna mediazione professionale dei giornalisti.

Anche per i mezzi tradizionali il problema centrale non è più quello di trovare le notizie ma quello di destreggiarsi in flussi informativi complessi, con vari livelli di credibilità e di distorsione. I giornalisti tendono a diventare, più che produttori di un manufatto (la notizia), degli interpreti dei flussi informativi generati e supportati dalle piattaforme. SI tratta di una differenza di ruolo importante che cambia anche le competenze richieste: meno capacità di scrittura e più familiarità con i dati, competenza nel muoversi tra discipline diverse, capacità di orientarsi tra flussi informativi molto sovrabbondanti. Mentre, un tempo, i flussi informativi dei mezzi tradizionali erano filtrati e regolati, ora l’accesso diretto a una molteplicità di informazioni fa ingigantire questioni come le fake news, la capacità di riconoscere l’origine di un’informazione e la distinzione tra informazione e comunicazione commerciale.

Tutto questo pone problemi regolatori nuovi o accentua quelli precedenti. Le piattaforme digitali devono essere trattate come editori, con responsabilità completa, oppure come semplici carrier, senza nessuna responsabilità? Se le piattaforme moderano i contenuti, cioè ne cancellano qualcuno (ingannevoli, pornografici, ecc), un’organizzazione privata prende una decisione normalmente presa da un giudice, ma allo stesso tempo la decisione di un giudice è sempre fuori tempo e spesso inutile in un ambiente digitale. Non sarà semplice sciogliere tutti i nuovi nodi.

*professore di Economia dei Media all’Università degli Studi di Milano

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