Nelle Lettere Persiane (1720), Montesquieu immagina che un colto persiano visiti la Francia e si meravigli delle rozzezze dei nativi, chiamati “francesi”. A Parigi si reca alla Comédie Française, in un luogo chiamato “teatro”, e rimane molto perplesso. Più di quello che succede sulla scena, lo colpisce quel che accade nei palchi, dove “si vedono degli uomini e delle donne che rappresentano insieme delle scene mute […]. Tutte le passioni sono dipinte sui visi ed espresse con un’eloquenza che, essendo muta, è ancora più viva. Gli attori non vi appaiono che a mezzo busto”.
Con questo abile espediente di straniamento antropologico, Montesquieu qui rendeva omaggio a quello che si era già da tempo costituito in un vero e proprio topos: l’idea che, ben al di là dei luoghi ad esso deputato, il teatro sia ovunque, che tutta la vita sia una recita ininterrotta, dove ognuno di noi interpreta più parti.
Questa idea, che i medievali sintetizzarono nella dicitura “theatrum mundi”, risale come tante altre all’antichità classica, per poi trionfare nell’Europa del Cinque-Seicento, in particolare fra l’Inghilterra elisabettiana e la Spagna del Siglo de Oro. Una delle opere più famose di Calderón de la Barca ne diventa, fin dal titolo, una specie di manifesto (El Gran Teatro del Mundo) ma è stato sicuramente Shakespeare ad avercene lasciato le formulazioni più esplicite e suggestive.
A cominciare ovviamente da Come vi pare: “Il mondo è tutto un palcoscenico,/ e uomini e donne, tutti sono attori”. Per arrivare alla battuta con cui Macbeth accoglie la notizia della morte della moglie: “La vita è solo un’ombra che cammina, un povero attore/ che gonfia il petto e s’agita per la sua ora sulla scena/ e poi non se ne sente parlare più. E’ una storia/ raccontata da un idiota, piena di frastuono e furia/ che non significa nulla”.
Del resto, è proprio in America che la nozione di “performance” emerge negli anni Cinquanta del secolo scorso. Non in ambiente teatrologico ma fra linguistica e socio-antropologia, per indicare quell’agire, quel fare (mostrato, sottolineato: doing e showing doing, secondo Schechner) in cui consistono le presentazioni e rappresentazioni del sé, individuale e collettivo; le quali a loro volta costituiscono la materia di ciò che chiamiamo società, politica, cultura, arte. Cominciando dalle azioni che compiamo con le parole (“atti linguistici” di Austin) a tutto il resto del “comportamento in pubblico” (Goffman).
In questo modo, invece di ridurla a un confronto binario (teatro/realtà), la questione della “vita come rappresentazione” può essere più adeguatamente indagata dentro uno spettro performativo ampio, che dalle interazioni-faccia-a faccia arriva alle performing arts, passando fra l’altro per il gioco, lo sport, l’intrattenimento, la cura, il rituale.
Purtroppo il libro di Sennett, nonostante le premesse, si risolve in gran parte in un accumulo di informazioni (più o meno interessanti) e di osservazioni brillanti (più o meno condivisibili), costrette dentro uno schema storico che risulta al tempo stesso troppo generico e troppo rigido.
Le pagine più interessanti, oltre ai ricordi personali sull’ambiente artistico degli anni Sessanta e Settanta in Usa, sono quelle dedicate alla musica (non a caso: l’autore è stato un buon violoncellista). Le più carenti invece appaiono proprio quelle riguardanti la storia del teatro, nelle quali si indulge in aneddoti e particolari curiosi che rischiano di dare un’immagine completamente falsata dei fenomeni.
Come quando, a proposito della Commedia dell’Arte, Sennett insiste nel inveterato cliché di considerarla un’”arte popolare”, che proponeva “spettacoli improvvisati agli angoli delle strade (la versione rinascimentale della pop-up art)”. O, parlando della sublime Isabella Andreini, rimane colpito soprattutto dalla sua abilità nel riprodurre “il suono esplosivo delle flatulenze del dio Saturno”!