Mi sono spesso chiesto: di quanti autori viventi posso dire che, appena esce un loro libro, mi precipito ad acquistarlo? Pynchon, Krasznahorkai, Murnane, forse, con un po’ di generosità, Cartarescu… E poi? Certamente Calasso, che continua a praticare l’inconcepibile scienza occulta dell’editoria postuma, ma anche, unico altro italiano e soprattutto il solo tra i filosofi cosiddetti ‘contemporanei’: Giorgio Agamben. Il Volume I (1972-1981) dei suoi Quaderni, fresco di stampa per Quodlibet, è qualcosa di più di un’opera nel senso consueto del termine e per vagliarne appieno la portata bisognerà attendere il percorso tracciato dai volumi a venire.

Tentando comunque un accostamento provvisorio, si potrebbe incominciare col situare questi «appunti di pensiero, note di studio e di lettura», nell’ambito in parte già preparato da Autoritratto nello studio, Studiolo e, soprattutto, dal recente Quel che ho visto, udito, appreso… Se è vero che «l’uomo si è perduto nel soggetto» (p. 145), questi ‘atlanti speculativi della memoria’ permettono di ritrovarlo attraverso un calibratissimo esercizio di desoggettivazione che si compie essenzialmente evocando e commentando testi e immagini. La primissima pagina degli Appunti (I° gennaio 1972) avverte che «gli uomini vanno presi solo in senso figurato. Solo se ci si riferisce costantemente alla figura […] è possibile il rapporto con gli altri» (p. 15). E poco dopo si accenna «[…] a una tecnica psicoanalitica che insegnasse non già come far diventare conscio l’inconscio, ma come entrare in rapporto con esso lasciandolo inconscio. Questa sarebbe una tecnica per appropriarsi dell’inappropriabile […]» (pp. 19-20).

Tornando all’uomo e alla sua figura, diremo allora che l’esercizio dei Quaderni è quello, tramite parole solo accidentalmente autoriali, di figurare l’uomo infigurabile. Solo quando questa figurazione fallisce, essa viene a coincidere con l’irrilevante contorno di un io. Così, se è vero che «l’esperienza più forte della vita di ciascuno sono le parole che egli ha trovato» (p. 32), è altrettanto incontestabile che «riuscire», nella vita, può significare soltanto «essere l’unico testimone della <propria> catastrofe» (p. 35). L’infigurabile messo in figura dalle parole dei Quaderni, cioè l’uomo, è forse perciò descrivibile come quel che si realizza quando la catastrofe dell’io riesce a compiersi con successo, cioè filosoficamente.

Questo relativamente al programma implicito dell’opera, sottoposto al precetto: «Tra il desiderio e l’immagine insinuare la parola» (p. 80). E quanto ai ‘temi’? Di essi non è possibile dar conto, perché si tratterebbe di confrontarsi con una sostanza mentale straordinariamente prolifera la cui estensione è stata in grado di raggiungere e amalgamare a sé pressoché tutte le questioni che l’Occidente ha ritenuto necessario affrontare – o trascurare – nei secoli della sua storia. Da questo punto di vista, come già coi Cahiers di Valéry o Simone Weil, i Quaderni dovranno diventare, per chiunque intenda cimentarsi con la vocazione rabdomantica del pensiero, una sorta di falda sotterranea cui attingere per intensificare le possibilità di crescita dei nessi che si vorrebbero istituire in superficie. Quel che accade attraversando i Quaderni lo ha saputo anticipare puntualmente Goethe (che parlava di chi scrive, ma diviene ancor più risolutivo se ‘girato’ borgesianamente su chi legge). Ad ogni paragrafo «l’argomento ognuno ce l’ha davanti agli occhi, il contenuto lo trova solo chi ha qualcosa da aggiungervi e la forma è per quasi tutti un mistero».

La potenza dei Quaderni di Agamben sta anzitutto nel mistero della loro forma. Di cui si cercherà allora di enucleare alcuni tratti salienti, anche se forse soltanto immaginandoli.

Miccia. Per indicare l’opera degli artificieri si usa talvolta il verbo ‘far brillare’. Quando raggiunge l’inquieta brevità dell’aforisma, la scrittura di Agamben somiglia a una pirotecnica silenziosa, fatta di minuziosi lapilli di passato che, per rivelarsi nell’attuale e rivelarlo, necessitano del fuoco eracliteo del filosofo. Il pensiero è un combustibile segreto, onnipervasivo; la filosofia, l’arte di incendiare la miccia.

Sonda. Il pensiero di Agamben agisce come una sonda che si accende solo quando ha raggiunto il centro esatto dell’oggetto in cui ha deciso di immergersi. Non conosce approssimazione. Distilla esattezze.

Funambolo. Tutta l’opera del filosofo è segnata da inversioni essenziali. Agamben ha una predilezione per il détournement: ‘si è soliti sostenere che, ma’. L’avversativa introduce un ribaltamento interno al movimento del pensiero. Anziché produrre il passaggio dialettico verso il suo contrario, la mossa, intimamente sovversiva, permette al pensiero di collocarsi sull’asse del ribaltamento medesimo, mantenendosi in equilibrio über der Liniesulla linea dove il funambolo, pur rimanendo immobile, stavolta non precipita. Egli anzi attende e ci lascia ammirare il suo gesto. Anche noi «[…] en hypomenei: nell’immobilità e nell’attesa» (p. 19).

Vicinanza. Non c’è, in tutta l’opera di Agamben, una sola frase di circostanza; mai nessuna concessione alla chiacchiera o all’interesse, agli utili del senso comune. Lo testimonia la rubrica Una voce che, in quest’età dell’inconsistenza, giganteggia rispetto alla raccapricciante pochezza del dibattito politico circostante. «Il mondo della pubblicità che, attraverso la fitta rete dei giornali, della televisione, delle notizie e delle comunicazioni preclude ogni possibile accesso alla sfera pubblica, così come, unificando ogni cosa in una falsa prossimità, impedisce di accedere al veramente vicino» (p. 97). E proprio per questa imperterrita distanza dalla ‘società dello spettacolo’ il suo pensiero è oggi, nel modo più pieno e radicale, il più vicino all’essenza e il più autenticamente pubblico.

Attenzione. «In futuro bisognerà forse rinunciare a molte cose preziose, che sono del resto già quasi scomparse di fatto. Bisognerà rinunciare all’attenzione consapevole ed essere perciò in grado di fare della distrazione una condizione abitabile. Bisognerà rinunciare all’esperienza e trasformare questa povertà in occasione di conoscenza» (p. 140). Impressiona leggere queste righe in un’età in cui ogni conversazione, ogni incontro, ogni attività è costantemente interrotta dagli effetti a intermittenza del distoglimento telematico. Agamben l’ha diagnosticato fin dai primi passi del suo Denkweg: «Tutte le malattie sono malattie dell’attenzione. Se riuscissimo a essere sempre attenti, non ci ammaleremmo» (p. 36). Vale tanto più per l’odierno disagio della civiltà, la cui annichilente contingenza storica include anche la disattenzione – quando non il più volgare ostracismo – riservati alle posizioni di Agamben («Dagli italiani miei contemporanei ho preso la distrazione. Attenzione non ne ho trovata», registra laconico in Quel che ho visto, udito, appreso…).

È sperabile che, per i ‘venturi’, la filosofia dell’attenzione dei Quaderni possa finalmente valere come antidoto.

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