“Ma va a dà’ via ‘l cu” è un’espressione lombardissima, la declinazione padana dell’italico “vaffa”. Fa impressione che a usarla, in un racconto concitato, sia un padrino della ‘ndrangheta. Ma Antonino Belnome è un padrino speciale. È nato e cresciuto a Giussano, in provincia di Monza-Brianza, da una famiglia immigrata da Guardavalle, in Calabria. Da bambino, nelle lunghe vacanze estive in cui veniva rispedito al Sud, e in qualche anno di scuola lì trascorso perché il padre era in carcere in Svizzera, Belnome ha ricevuto la sua “educazione calabrese”. Soprattutto da parte di uno zio, ‘ndranghetista temuto e rispettato.

Poi, stabilitosi definitivamente nell’operosa Brianza, ha scalato con una rapidità insolita le gerarchie dell’organizzazione criminale, fino a diventare, appena quarantenne, un padrino. Un padrino del Nord, appunto, con interessi anche in Svizzera. Fino all’arresto e alla scelta di collaborare con la giustizia. E di raccontare dalla sua viva voce, i delitti, gli affari, le complicità e i riti della ‘ndrangheta in Lombardia. Il suo racconto in prima persona lucido, preciso, senza reticenze, è raccolto nei sei episodi del podcast “La voce del Padrino – Come nasce un boss lombardo”, che può essere ascoltato da abbonati e Sostenitori del Fatto Quotidiano. Gli autori sono Marco Tagliabue, regista della Tv svizzera italiana che su Belnome ha firmato il documentario Il padrino e lo scrittore, e i giornalisti di ilfattoquotidiano.it Alessandro Madron e Mario Portanova. La post produzione audio è di Simone Lanza.

C’è un momento chiave nella storia di Antonino Belnome, e anche nella storia della ‘ndrangheta in Lombardia e nel Nord Italia: l’assassinio del boss Carmelo Novella – anche lui originario di Guardavalle – avvenuto nel pomeriggio del 14 luglio 2008 fra i tavolini all’aperto di un bar di San Vittore Olona, un paese 30 chilometri a nordovest di Milano. Belnome era il killer incaricato dell’esecuzione: nel podcast la ricostruisce in ogni dettaglio. L’omicidio segna però una svolta nella consapevolezza dell’opinione pubblica sul radicamento delle mafie in Lombardia e nel Nord Italia. Troppo evidenti i galloni ‘ndranghetistici della vittima, troppo plateali le modalità scelte per l’esecuzione. I media accendono i riflettori, la politica (in parte) si risveglia.

E l’antimafia, naturalmente, indaga. Il cerchio si chiude il 13 luglio 2010, quando scatta una delle più imponenti operazioni della storia della lotta alla ‘ndrangheta, detta Crimine-Infinito, con circa 300 arresti fra Lombardia e Calabria. Mentre anche Belnome finisce in cella, l’epoca del negazionismo sulla mafia a Milano, per tanti anni coltivato da sindaci, prefetti e alti rappresentanti istituzionali, tramonta in modo traumatico.

Il podcast La Voce del padrino racconta la parabola del boss lombardo: l’infanzia, la fascinazione per la ‘ndrangheta, il debutto nella Milano criminale come tuttofare del capo clan Andrea Ruga, la conquista di gradi sempre più pesanti nell’organizzazione, i retroscena dell’omicidio Novella, l’arresto, la scelta di collaborare con la Direzione distrettuale antimafia guidata da Alessandra Dolci. Ma soprattutto fa comprendere a fondo cosa sia la ‘ndrangheta oggi in Italia e nel mondo, al di là delle distinzioni spesso forzate fra Calabria, Lombardia, Paesi stranieri. Belnome è la figura perfetta per illustrare la ‘ndrangheta di oggi: del sud e del nord, criminale e imprenditoriale, moderna e arcaica. Nel podcast, sentirete il padrino brianzolo dissertare con precisione accademica su riti di riti di affiliazione, sul conferimento delle “doti” gerarchiche, insomma sulla “favella”, l’insieme della regole ferree che scandiscono i rapporti fra gli ‘ndranghetisti. Persino nella più intime vicende familiari (per esempio i tradimenti coniugali), persino a tavola durante le “mangiate” (c’è un ordine preciso anche per versare il vino).

“Io ero arrivato al punto di decidere chi doveva vivere e chi doveva crepare”, dice l’ex boss nella lunga intervista, inframmezzata dal racconto degli autori sull’evoluzione della ‘ndrangheta fra Nord Italia e Calabria. “Deve andare all’inferno, e deve tornare indietro. Io il diavolo l’ho visto parecchie volte in faccia”. Belnome racconta omicidi – di cui spesso è organizzatore -, faide, estorsioni che hanno come sfondo la Brianza, ma spesso sono dettati da intrighi e rivalità che sorgono mille chilometri più a Sud. Racconta con grande naturalezza l’intreccio fra criminalità ed economia “pulita” negli affari edilizi e immobiliari, nella gestione dei locali pubblici, nei rapporti con le banche. Affari e favori ottenuti a volte con le minacce, ma spesso con la compiacenza di imprenditori e professionisti disposti a chiudere gli occhi.

Dalle testimonianze di Belnome emerge un dato sconvolgente: tanti, in un territorio come la Brianza, simbolo dell’operosità lombarda, erano perfettamente consapevoli del potere criminale che il padrino e i suoi uomini rappresentavano, e per lo più lo accettavano passivamente. Politici, imprenditori, professionisti, ma non solo. In diversi bar e locali notturni, Belnome e i suoi erano sempre ospiti non paganti, anche se scolavano bottiglie di champagne per tutta la notte. Gente che era meglio tenersi buona. Un po’ per paura, un po’ per calcolo.

In cella, dopo la scelta di collaborare, Belnome scrive un memoriale in cui fa a pezzi la sua vita criminale. La ‘ndrangheta ti abbaglia con il denaro e il potere, spiega, ma poi ti intrappola la vita nelle maglie sue regole feroci. “La ndrangheta mi ha forgiato”, afferma. “E mi ha fatto diventare come voleva lei. Ti plasma, se tu diventi come vuole lei dopo hai tutto. Quindi poi sottrarsi da tutto questo non è semplice. Ne diventi schiavo”. Nel memoriale il boss pentito si rivolge “a tutti quei ragazzi vicini alle mafie“, ammaliati da “macchinoni, soldi, bellissime donne“. Perché trovino “la forza di volontà di tornare indietro”.

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