di Chiara Piana

In famiglia spesso raccontano che c’era una certezza granitica su cui contare, una garanzia che rasserenava chiunque dovesse spostarsi da un luogo all’altro: il treno. Che ci fosse pioggia, neve, vento, freddo o caldo, quel mitologico mezzo su rotaie sarebbe arrivato e avrebbe accolto i passeggeri nei suoi scompartimenti, assicurando di giungere a destinazione con la puntualità scontata di cui ogni trasporto pubblico dovrebbe essere simbolo.

Se vivessimo in un Paese normale, ascolterei questo racconto come una semplice testimonianza di un meccanismo di civiltà e progresso consolidato da anni, ancora oggi a mia disposizione e ulteriormente migliorato. Io vivo, però, in Italia, un Paese nel quale sentire narrare di treni in orario è come assistere ai racconti degli aedi nell’antica Grecia, attraverso i quali si tramandavano imprese eroiche del passato in modo che i viventi potessero gloriarsene e ambire a quell’età meravigliosamente retta da alti princìpi e somme gesta. Vivo in un Paese che, insomma, forse non può definirsi “normale”, se intendiamo questo aggettivo con l’accezione di “funzionale”.

Che il trasporto ferroviario versi in una condizione disastrosa non è certo una novità di cui possa dirmi scopritrice; ciononostante, siccome l’attuale Ministro dei Trasporti – al pari dei suoi predecessori – non sembra cogliere la gravità della situazione, forse perseverare nel fornire testimonianze dei quotidiani disagi dei pendolari può sortire qualche effetto.

Nel 2024 risulta ostico, infatti, comprendere a fondo per quale ragione, appena si verifica una giornata di pioggia (e spesso addirittura senza), si ha una crisi ferroviaria durante la quale gli orari indicati nei tabelloni diventano un semplice oggetto decorativo, un ornamento evidente, ma trascurabile. A onor del vero, il Ministro a tal proposito non è rimasto in totale silenzio: in seguito ai disagi della settimana scorsa, riguardanti l’alta velocità, ha infatti esaustivamente spiegato che tutto sarebbe dipeso da un chiodo. E a questo punto, benché da un simile soggetto non si possano pretendere dichiarazioni di senso compiuto, non ci si può che chiedere quanti chiodi siano stati posizionati male, se a subire ritardi continui sono anche tutti i treni regionali della penisola. È palese che il problema non si possa ridurre, quindi, a un singolo “chiodo dello scandalo”.

Resta da capire, pertanto, quale sia la causa per cui, in casi di maltempo, si scatenano: il noto profluvio di annunci di ritardi “previsti” (che equivalgono a ritardi della durata indefinita), fermentazioni presso le varie stazioni – talvolta nemmeno arricchite da delucidazioni – e cancellazioni indorate dall’immancabile “ci scusiamo per il disagio” (pronunciata da una voce talmente fredda da far sembrare quella di Voldemort – mi perdoni chi non è fan della saga – straordinariamente materna). Ogni volta che quella formula di circostanza risuona per l’aere di una stazione avverto più fastidio che comprensione, perché, dal mio punto di vista, innanzitutto è umiliante ricevere le scuse per disagi di cui nessuno si preoccupa realmente e a cui non si cercano soluzioni, e, in secondo luogo, spezza la coltre di ipocrisia che permea ogni aspetto della vita politica del nostro Paese.

Dato che abbiamo già palesato e sdoganato tale ipocrisia – nelle promesse non mantenute, nei proclami che mascherano insuccessi, nelle pubblicità che delineano un mondo ideale in cui tutto funziona – , a tal punto che nessuno si sforza più di nascondere la discrepanza tra realtà e narrazione, perché non chiedere che almeno dagli altoparlanti giunga solo un grande silenzio?

Il silenzio dell’indifferenza verso noi cittadini comuni, verso la nostra quotidianità e il nostro benessere: quel silenzio che ogni viaggiatore in ritardo sente dentro di sé, l’enorme e tacito vuoto lasciato da una politica collocata ormai su di un altro pianeta. Ci eviteremmo, così, un’ulteriore dose di nervosismo.

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