L'architetto giapponese Kengo Kuma ha creato una scenografia innovativa in Alcantara per l'opera di Verdi, in un allestimento che fonde musica, design e architettura
Quando Simon Boccanegra, il Doge di Genova, muore avvelenato, una goccia rossa compare e subito scompare dietro di lui, sulla punta di uno dei teli di Alcantara che cadono sul palcoscenico dall’alto. L’effetto della luce in quell’attimo è intimo, drammatico e sfuggente come i suoi sentimenti. Siamo effimeri. Le battaglie, i conflitti, l’ambizione al potere e alla vendetta, le relazioni irrisolte, i colpi di scena che ribaltano le certezze, gli equivoci, tutto si scioglie nel finale struggente. E’ la verità del tempo a emergere. Cosa resta? Un senso di pace e riconciliazione, impalpabile come la luce che penetra nelle volute dell’allestimento di Kengo Kuma. Al Teatro di San Carlo di Napoli è andata in scena, dall’11 al 13 ottobre, la prima assoluta del “Simon Boccanegra” di Giuseppe Verdi in forma di concerto, con la scenografia realizzata in Alcantara dall’architetto giapponese Kuma, un nome di fama mondiale.
Il progetto, ideato nell’ambito di Edit Napoli, la fiera del design editoriale e d’autore che si è svolta all’Archivio di Stato di Napoli, ha visto in scena un cast d’eccezione: il baritono Ludovic Tézier nei panni di Simon Boccanegra, la soprano Marina Rebeka nel ruolo di Maria Boccanegra (Amelia), il basso Michele Pertusi nella parte di Jacopo Fiesco e il tenore Francesco Meli (Gabriele Adorno). Mentre Mattia Olivieri e Andrea Pellegrini hanno interpretato Paolo Albiani e Pietro. A dirigere l’orchestra del San Carlo di Napoli l’eccellente Michele Spotti. Fra i protagonisti, però, oltre alla musica e alle voci, anche l’enorme struttura sospesa alle spalle del coro, diretto da Fabrizio Cassi, e il disegno luci firmato da Filippo Cannata: presenze in dialogo costante con lo sviluppo dello spettacolo. “Shiwa Shiwa” è il titolo scelto da Kengo Kuma per il suo allestimento. Significa piega-solco e indica un concetto giapponese riferito all’andamento curvilineo della natura, alla sua inafferrabilità, al suo essere mobile, cangiante, in perenne trasformazione. A realizzare quest’idea è stata una superficie di Alcantara traforata, di circa settecento metri quadrati, sospesa sul palcoscenico del teatro.
Con le sue onde, con le sue curve e spirali ad altezze diverse, cattura e muove riflessi di luce, genera ombre, antri e grotte, pensieri e trappole della mente. La scena fissa, ancorata seguendo i sistemi di fissaggio ‘noren’ giapponesi, non ha però nulla di statico: le onde materiche fluttuano nell’aria, animate dalla suggestiva regia luminosa. Nella visione di Kuma, l’onda di Alcantara che caratterizza la scenografia, con le sue mutevoli spirali che cambiano, è il simbolo dell’azione dell’opera lirica ma è anche l’intricato, labirintico e complesso interiore umano. Una vera e propria opera d’arte totalizzante all’interno della quale lo spettatore si immerge fra luci e ombre.
Il melodramma in un prologo e tre atti, su libretto di Francesco Maria Piave con aggiunte e modifiche di Arrigo Boito dal dramma “Simón Bocanegra” di Antonio García Gutiérrez, è stato così l’occasione del racconto a più voci diffuso nella città partenopea da Edit Napoli. Il programma dell’iniziativa ha promosso un diverso concetto espositivo, puntando i riflettori sul design sostenibile, sulla territorialità e la qualità a dispetto della quantità, su processi di produzione che coniugano artigianato e design internazionale. Un incontro fra tradizione e contemporaneità che ha preso vita anche sul palcoscenico dello storico teatro napoletano con l’allestimento per Alcantara di Kuma.
Il punto di bianco scelto e i trafori del materiale creano un effetto di luce cangiante che muta a seconda delle intensità e delle angolazioni, che muove luci e ombre come onde. Nella visione di Kengo Kuma (Kkaa Tokyo), coadiuvato da Taichi Kuma e Marco Imperadori (Politecnico di Milano) per la curatela di Domitilla Dardi, la storia di Simon Boccanegra, plebeo eletto Doge di Genova nel XIV secolo, è fatta di onde di mare. Somiglia a quella dei samurai, che parte dalla violenza ma va verso la purezza. Per l’architetto giapponese, che è volato alla generale per veder respirare la sua opera sul palco e poi subito ripartire, la ricerca è stata fondamentale: la forma delle volute si ispira alla tessitura più che all’architettura. Il colore? Un bianco particolare, non un bianco assoluto. Rendere quell’idea di impalpabilità e di leggerezza nonostante le dimensioni dell’allestimento ha richiesto mesi di lavoro. La scelta di un’interpretazione minima nella gestualità ma grande nella tensione drammatica, per far risaltare musica e voci, è stata molto apprezzata dal pubblico. Un trionfo di applausi. E quella piccola goccia rossa nel finale, su una delle punte dei teli che compongono l’allestimento, è scaturita quasi per caso durante le prove luci, spontanea. Si è deciso di tenerla.