Di attentato in attentato a Donald Trump – tutti fortunatamente falliti -, uno al mese, sempre nei fine settimana, l’Election Day negli Stati Uniti s’avvicina: a tre settimane dal voto, si gioca a carte ormai scoperte. Kamala Harris, la candidata democratica, non ha più il vento in poppa e cala il suo asso, Barack Obama, per cercare di rovesciare l’inerzia della campagna che, a cavallo tra settembre e ottobre, ha di nuovo girato a favore di Trump, il candidato repubblicano, uscito dal cono d’ombra dov’era finito dopo il ritiro di Joe Biden, che lo aveva privato d’un facile rivale.

E l’attentato sventato sabato a Concella, in California, ha ulteriormente rafforzato la già fortissima preponderanza mediatica dell’ex presidente sulla vicepresidente: si parla più di lui che della rivale; se ne parla male, ma se ne parla, mentre Kamala è divenuta trasparente. Magari è solo un momento, ma il momento è questo. E c’è poco tempo per rovesciare la situazione.

E’ quanto almeno traspare dalle analisi dei grandi media e anche dall’intensità della copertura, più ancora che dai sondaggi: ci sono più titoli per l’ex presidente che per la vicepresidente, più grida d’allarme – i grandi media sono dichiaratamente pro Harris – che grida d’incitamento. Tutto viene buono in questo gran finale un po’ confuso e un po’ stanco: migranti, economia, guerre, la salute persino (quella dell’altro, che è vecchio – Trump – o che non ha stamina – Harris).

Non è chiaro quanto sia un ‘gridare al lupo’ perché la gente vada a votare e quanto sia vero. Ma c’è in filigrana il ricordo della campagna delle primarie del 2020, quando Harris partì forte, ma arrivò alle primarie ‘spompata’ e senza soldi – stavolta, su questo fronte non corre rischi.

Harris non stacca nettamente Trump nei sondaggi nazionali, che è normale le siano favorevoli; e resta in parità, o leggermente sotto, nei sondaggi negli Stati in bilico. Soprattutto, la vicepresidente fatica ad acquisire il sostegno di moderati e indipendenti e non riesce a tenere la sua immagine distinta da quella di Joe Biden, negativa agli occhi degli elettori.

Passa meglio il messaggio di Trump che Harris è un’estremista di sinistra, nonostante lei si collochi al centro, che quello di Harris che Trump è un pericolo per la democrazia. Prendere le distanze dall’operato di Biden, del resto, ha dei pro e dei contro: la vice cammina su uno stretto crinale, lealtà al suo boss e appiattimento sul suo operato; o cinico opportunismo e disinvolto distacco.

La voce più positiva per Harris resta quella della raccolta di fondi: la vicepresidente ha messo su oltre un miliardo di dollari da quando è scesa in lizza, il 22 luglio, mentre tra luglio e settembre Trump e i repubblicani ne hanno fatti meno della metà, 430 milioni, sotto il livello del 2020.

Gli uragani che, quasi a raffica, hanno devastato dalla Florida alla North Carolina il Sud dell’Unione hanno in parte condizionato la campagna, offrendo a Trump ulteriore argomento di facile attacco, mettendo insieme argomenti tutti sconclusionati e senza fondamento, ma che fanno presa: che Biden/Harris lesinano aiuti alle popolazioni, perché le aree più colpite sono prevalentemente repubblicane; e che Biden/Harris si erano già spesi per i migranti i soldi della protezione civile; e, infine, la cosa più paradossale, oltre i confini del complottismo, che il percorso degli uragani seguono la mappa dei collegi elettorali, colpendo i repubblicani e risparmiando i democratici – chi lo pensa presta al duo Harris/Biden poteri da trinità.

Senza contare che gli uragani, che pure sono un effetto del cambiamento climatico, offrono il destro a Trump di ridicolizzare il riscaldamento globale: “Mai stato così brutto il tempo”. Tra tante balle, il tentativo di Harris di proiettare un’immagine di leadership e di solidarietà, stando accanto a Biden nei briefing sull’emergenza e sollecitando cooperazione bipartisan, è mediaticamente sbiadito.

Se l’uragano passa in fretta, l’inflazione rallenta troppo lentamente: a settembre è stata del 2,4% annuo, vicino al 2% considerato positivo per l’economia. Ma gli elettori guardano al potere d’acquisto, che è diminuito dal 2021 a oggi, nonostante gli aumenti dei salari. Torna il fattore bacon, la pancetta affumicata, ingrediente essenziale del breakfast di decine di milioni di americani, i cui prezzi continuano a salire, facendo il gioco di Trump, che continua a promettere sgravi fiscali senza mai spiegare dove andrà a prendere i soldi per la spesa pubblica.

Proprio l’improbabilità delle promesse di Trump è uno degli argomenti dei discorsi che Obama fa nelle sue sortite: “Se volete che i prezzi scendano, votare Trump non è la scelta giusta“, perché lui dice di avere “un’idea di piano” per l’economia, mentre Harris “ha un vero piano”. Obama insiste: “Trump è un milionario che si lamenta da nove anni, pensa solo a se stesso … Non ha mai cambiato un pannolino, non ha mai sostituito una gomma a terra” e finge di essere “uno come voi”.

“Siamo pronti per una presidente come Harris, siamo pronti a voltare pagina”, sprona Obama. Ma, in realtà, proprio l’elettorato nero, decisivo in North Carolina e Georgia e influente nel Michigan, non sembra tanto convinto di andare a votare Harris: certo, pochi neri pensano di votare Trump, ma ce ne sono parecchi che sono freddi sull’idea di recarsi alle urne. Obama li incita: “Che questa elezione vi ecciti o vi spaventi, vi crei speranza o frustrazione, non state lì ad aspettare e a sperare che le cose vadano bene. Alzatevi dal divano e andate a votare”.

Emerge, sotto traccia, un nervo scoperto nell’elettorato democratico: la misoginia. Il sospetto viene avallato, nell’analisi del New York Times, dal fatto che Harris, oltre che fra i maschi neri, non fa breccia in quella quota di elettori ispanici che nel 2020 avevano sostenuto Trump e che – per oltre i due terzi – continuano a sostenerlo. Questi elettori “non pensano che Trump stia parlando di loro” quando l’ex presidente definisce i migranti “criminali” e minaccia deportazioni di massa; e sono pure favorevoli alla costruzione del muro lungo il confine con il Messico. Oltre ad avere un fondo di diffidenza ‘latina’ nei confronti di una donna presidente.

Se Hillary Clinton, nel 2016, perse anche perché le donne liberal d’America non la consideravano abbastanza femminista, Kamala Harris potrebbe perdere, quest’anno, anche perché è una donna.

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