La Cina non si è conquistata la leadership mondiale nell’auto elettrica per caso. L’ha raggiunta grazie ad una politica industriale impostata una decina di anni fa e coordinata a livello centrale. Le politiche industriali sono, naturalmente, una forma di intervento statale in economia: è il governo, non il mercato, che sceglie i “vincitori”. Nel suo piano “Made in China 2025”, presentato nel 2015, Pechino aveva delineato gli ambiti preferenziali per la crescita della sua industria, indirizzando qui le risorse, con l’obiettivo di favorire netti avanzamenti tecnologici. Tra i settori individuati come cruciali i semiconduttori, le tlc, l’intelligenza artificiale, robotica, aerospazio, le energie rinnovabili e, appunto, l’auto elettrica.

In Europa ci si è affidati al mercato, alla libera scelta di aziende private, guidate dal perseguimento del profitto nel breve termine. Il risultato è che le case automobilistiche hanno accumulato un ritardo nel settore ormai difficilmente colmabile. Hanno distribuito ai soci dividendi per miliardi e miliardi di euro e non hanno investito abbastanza per presentarsi puntuali agli appuntamento con la transizione all’elettrico. Ora però chiedono l’aiuto dei governi (sussidi e dazi), cercano di afferrare la mano pubblica per tirarsi fuori dal pantano.

Nel 2009 venivano costruite in Cina 10 milioni di auto, nel 2017 erano già 29 milioni, quasi il triplo rispetto agli Usa e quasi 10 volte rispetto alla Germania. Il 25% della produzione cinese è costituito da vetture elettriche. Nel 2012 il paese esportava un milione di automobili, nel 2023 quasi 4 milioni. È stato l’anno del sorpasso sul Giappone come primo esportatore al mondo. Anche nell’export un quarto delle auto è elettrico.

Non tutto è perfetto, naturalmente. Ci sono stati sprechi, altri settori sono stati “sacrificati” in favore di quelli prescelti. Al momento l’auto soffre addirittura di un eccesso di capacità produttiva. Ma questi sono disfunzionalità che si mettono in conto in vista di un obiettivo che si ritiene più meritevole di essere raggiunto rispetto alle fatiche necessarie per farlo. E che possono essere corrette in una fase successiva.

Secondo gli esperti del settore, le vetture a batteria sono una sorta di device con le ruote. Più vicine ad un tablet che a un furgone. Tanta tecnologia e software, meno industria. Quelle cinesi sono oggi più economiche e più tecnologicamente avanzate rispetto a quelle prodotte in Europa ed Usa. C’è l’eccezione Tesla a cui, per ora, i cinesi hanno lasciato il segmento di fascia più alta. Byd, però, ha sopravanzato l’azienda di Musk: con quasi 2 milioni di auto a batteria costruite è diventata la prima produttrice globale. La prima tra le europee è Volkswagen, al quarto posto, con 430mila vetture, un quinto rispetto a Byd. Le case cinesi sono forti anche di un controllo statale sulla filiera delle batterie elettriche, dalle miniere da cui vengono estratti i materiali per costruirle, all’assemblaggio finale. E anche qui nulla è avvenuto per caso.

In dieci anni le imprese cinesi sono diventate concorrenti dirette di quelle occidentali, di cui prima rivestivano un ruolo quasi di vassallaggio. Si spiega anche così il ritorno delle simpatie per le politiche protezionistiche negli Stati Uniti e nell’Ue. Prima la Cina era, fondamentalmente, un terreno di conquista e un bacino di manodopera non sindacalizzata a basso costo, quindi ben venivano le regole dei liberi commerci. Ora è una pericolosa rivale che erode quote di mercato e, quindi, le regole del gioco vanno cambiate.

Certamente Pechino dispone ormai di forze e risorse che permettono di implementare le sue strategie con una forza che molti altri paesi non hanno. Ma ha giocato anche la consapevolezza che certe cose avvengono solo se c’è qualcuno che tira le fila e indirizza. La vicina Corea del Sud, in tempi passati e in una certa misura tuttora, ha fatto lo stesso, individuando i settori su cui puntare, gestendoli in modo centralizzato ed indirizzando le risorse nazionali a loro favore. Così è riuscita a diventare una potenza economica globale. Ora la Germania ha varato il suo “Made in Germany 2030”, il nome non è casuale, per cercare di risollevare un industria nazionale in grave crisi di competitività.

Ci sono sempre più segnali di un ritorno di interesse verso una regia pubblica dopo che per decenni, in Europa, si è seguito un approccio opposto. Anche per la transizione dall’auto a benzina e gasolio, si è pensato di potersi affidare al mercato. Coerentemente con i principi su cui è improntata la politica economia dell’Unione e recepiti nei suoi trattati istitutivi. Il risultato è stato però fallimentare. Pazienza, si potrebbe dire se si volesse comunque, e legittimamente, attribuire al libero mercato e alla libera impresa un valore che va al di là delle singole battaglie.

La cosa “divertente” è che però ora le case automobilistiche del Vecchio Continente invocano disperatamente un vigoroso intervento dei rispettivi stati di domicilio. Non un inedito. Il neoliberismo è molto energico nel limitare lo Stato nelle politiche di welfare o sostegno ai più debole, altrettanto determinato nel pretenderne un ruolo (con soldi pubblici) a difesa dei profitti delle imprese private. Appena questi sono minacciati si corre sotto la sottana di mamma Stato.

Non passa giorno che Stellantis, Volkswagen, Renault eccetera non chiedano maggiori sussidi pubblici per lo sviluppo dell’elettrico. Oppure che non invochino barriere doganali che consentano di arginare l’ingresso in Europa delle più efficienti e meno costose auto cinesi. Purtroppo l’impressione è che i buoi siano scappati da un pezzo dal recinto. Secondo alcuni studi servono dazi di almeno il 50% per rendere le auto cinesi poco competitive in Europa.

A quel punto Pechino potrebbe reagire tagliando fuori i produttori europei dal più grande mercato del mondo. I produttori europei, lasciati a se stessi, hanno accumulato ormai ritardi difficilmente recuperabili, sono indietro anche sulle prime scadenze, quella del 2035. Forse la più furba è stata Stellantis che, capita la situazione, si sta alleando con i cinesi per vendere auto elettriche di Leapmotor in Europa.

C’è una lezione che si può trarre da questo fallimento e che potrebbe essere applicata al contrasto alla crisi climatica. Anche in questo caso la Ue ha scelto di affidarsi a meccanismi di mercato, adottando blande forme di penalizzazione/incentivazione. Fondamentalmente, così, si investe in rinnovabili e si disinveste dal fossile, solo se e quando conviene, ovvero quando i profitti non vengono intaccati di qua o sono garantiti di là.

Bisogna ricordare che, mentre le fonti fossili dispongono già di una gigantesca infrastrutturazione per l’estrazione, la lavorazione e la distribuzione (e quindi le aziende devono spendere relativamente poco per mettere sul mercato gas o petrolio), per sviluppare le rinnovabili servono investimenti massicci. Così appena gas e petrolio sono tornati a fruttare (e i propositi green della Ue si sono annacquati), le compagnie energetiche europee si sono precipitate a rivedere i loro piani industriali ridimensionando gli investimenti nelle rinnovabili. Morale della favola, senza un deciso intervento di pianificazione che consenta di andare oltre queste logiche, una specie di economia di guerra, è molto difficile produrre soluzioni di portata tale da essere commisurate all’entità della sfida climatica.

La Cina, con il suo poderoso apparato manifatturiero, è una grande inquinatrice, sebbene le emissioni pro capite di Co2 rimangano ben al di sotto di quelle statunitensi. Lo sono le sue imprese statali. Nel paese si concentrano gran parte delle produzioni globali industriali più energivore: dalla siderurgia al cemento e ai fertilizzanti. Tuttavia la Cina è anche il Paese che sta investendo in rinnovabili somme stratosferiche e che domina nella filiera del fotovoltaico. È il primo esportatore al mondo di energia eolica e solare. Il fatto che esista un’autorità centrale in grado, se decide di farlo, di dare priorità alle istanze ambientali rispetto alle logiche di profitto, offre, onestamente, qualche speranza in più rispetto a quanto fatto sinora in occidente.

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

Studio ucraino, la flotta ombra russa di petroliere è cresciuta del 70% in un anno nonostante le sanzioni

next
Articolo Successivo

Nasce l’alleanza italo-tedesca Leonardo – Rheinmetall per i carri armati. Dall’Italia commessa da 20 miliardi di euro

next