Ambiente & Veleni

Dal pastazzo delle arance alla cravatta, dalla colza alla benzina: che cos’è (e a cosa serve) la bioeconomia circolare

Un settore che combina la sostenibilità economica con quella ambientale, dissolvendo in qualche modo il conflitto tra sviluppo industriale e tutela dell’ambiente e della salute umana e animale

“Come dice il termine stesso, la bioeconomia circolare è diversa dall’economia circolare tout court perché non vengono più impiegate le fonti fossili, ma solo fonti biologiche rinnovabili, come input per la produzione industriale, energetica, alimentare e mangimistica. Queste materie prime biologiche provengono dalla terra e dal mare, anche se in Europa la materia prima che […]

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“Come dice il termine stesso, la bioeconomia circolare è diversa dall’economia circolare tout court perché non vengono più impiegate le fonti fossili, ma solo fonti biologiche rinnovabili, come input per la produzione industriale, energetica, alimentare e mangimistica. Queste materie prime biologiche provengono dalla terra e dal mare, anche se in Europa la materia prima che viene utilizzata deriva soprattutto da scarti, rifiuti, residui, in una logica che evita il conflitto con il cibo, perché appunto utilizza lo scarto, chiudendo anche il ciclo del carbonio”. Mario Bonaccorso è un esperto di bioeconomia. Direttore di SPRING, il Cluster italiano della bioeconomia circolare e fondatore di Il Bioeconomista, The First Bioeconomy Blog, ha scritto, per Edizioni Ambiente, Che cos’è la bioeconomia circolare. Un saggio per spiegare un tema di cui poco si parla. “Rappresenta un pilastro di tutti i processi di transizione ecologica e quindi anche del Green Deal. È un settore che combina la sostenibilità economica con quella ambientale, dissolvendo in qualche modo il conflitto tra sviluppo industriale e tutela dell’ambiente e della salute umana e animale”. La bioeconomia, inoltre, gioca anche un ruolo nella lotta al cambiamento climatico.

Bioplastiche, automotive, biocarburanti

Ma quali sono gli ambiti applicativi della bioeconomia circolare? “Il primo settore dove c’è stato innovazione è stata la chimica, fin dagli anni Ottanta, con la ricerca che ha portato, ad esempio, alle bioplastiche e in particolare a quelle compostabili: è una delle applicazioni in un cui l’Italia è un paese leader. Inoltre ci sono settori applicativi come il tessile e l’automotive: molte industrie automobilistiche ormai hanno biomateriali all’interno dell’autovetture, per ridurre le emissioni. Le imprese della moda impiegano tessuti che vengono realizzati partendo da scarti: penso al tessuto prodotto con il pastazzo delle arance utilizzato per cravatte e foulard, ma anche a notissime aziende di abbigliamento sportivo che fanno scarpe da ginnastica con la canna da zucchero e con la plastica riciclata.

E poi ci sono i biocarburanti, che in verità l’Europa non ha molto favorito. “Va specificato”, spiega l’autore, “che i carburanti di prima generazione erano quelli che utilizzavano le colture alimentari, come il mais e la colza. Poi ci sono quelli di seconda generazione o biocarburanti avanzati, che utilizzano scarti residui. L’Italia su questo fronte è protagonista. I biocarburanti sono fondamentali nel settore dell’aviazione, ormai tutte le compagnie stanno investendo”.

Boschi mal sfruttati e codici da riformare: le criticità della bioeconomia

Ma quali sono le criticità della bioeconomia circolare? “Anzitutto, ovviamente, la disponibilità della biomassa, che è tendenzialmente scarsa e allocata in modo imperfetto: servirebbero politiche che possano favorire la raccolta dell’organico, ma anche ad esempio dei residui del bosco: “Noi abbiamo una gestione non ottimale dei boschi che invece rappresentano un grande potenziale”. In generale, alla bioeconomia non viene riconosciuto il valore anche in termini di contributo alla decarbonizzazione e defossilizzazione, anche a causa della mancanza dei cosiddetti codici statistici ‘Ateco’: la chimica biobased, ad esempio, è ancora inserita dentro la chimica tradizionale, non c’è un sistema di analisi del ciclo di vita che tenga conto delle specificità dei prodotti biobased rispetto a quelli fossili”. Negli Stati Uniti questo cambiamento di codici è stato avviato, insieme a una serie di investimenti specifici nel settore, tanto che diversi settori dell’amministrazione si sono dotati di una propria strategia sulla bioeconomia. Stati Uniti e Cina stanno attraendo molti investimenti, cosa che non avviene in Europa. Perché? “Noi”, afferma Bonaccorso, “siamo bravissimi a fare ricerca e innovazione ma non sul passaggio alla fase di industrializzazione e questo riguarda anche la bioeconomia che è un settore di per sé innovativo”.

In generale, sulla bioeconomia bisognerebbe cominciare a ragionare come Unione Europea, “ormai la competizione è tra noi, Stati Uniti, Cina e Brasile, Paesi che stanno investendo in maniera massiccia. Bisognerebbe evitare di replicare investimenti sprecando denaro; infine bisognerebbe riformare i codice Ateco, una riforma a costo zero, in modo anche da cambiare le etichettature”. Tutto questo è a maggior ragione urgente, visto che ormai parliamo di un settore che non è più di nicchia, ma di una realtà diffusa.