Mafie

Foggia, 39 arresti nel clan Li Bergolis: “Era mafia degli affari, referente dei narcos albanesi e delle ‘ndrine. La più allarmante cosca pugliese”

Erano partiti dalla montagna, con violenza e caratteristiche di mafia militare, fino ad arrivare sulle coste del Gargano evolvendosi in mafia degli affari, capace di infiltrarsi nel tessuto imprenditoriale con riverberi anche in campo politico-amministrativo. Erano insomma diventati “la più allarmante criminalità organizzata del territorio pugliese”. E a poco è servito negli anni arrestarli e […]

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Erano partiti dalla montagna, con violenza e caratteristiche di mafia militare, fino ad arrivare sulle coste del Gargano evolvendosi in mafia degli affari, capace di infiltrarsi nel tessuto imprenditoriale con riverberi anche in campo politico-amministrativo. Erano insomma diventati “la più allarmante criminalità organizzata del territorio pugliese”. E a poco è servito negli anni arrestarli e tenerli in carcere in regime di alta sicurezza, visto che da lì continuavano a comandare e a dettare gli ordini all’esterno affinché i business continuassero a generare soldi su soldi partendo dal narcotraffico con i clan albanesi fino ad attività ‘pulite’ nelle quali riciclavano i guadagni. Adesso sono stati decapitati grazie a un’indagine monumentale per dimensioni e profondità da parte della procura antimafia di Bari che ha chiesto e ottenuto 39 arresti per capi e affiliati del clan Li Bergolis, i “Montanari” che si erano presi il mare e agivano in stretto raccordo con ‘ndrangheta e camorra. “Per qualsiasi cosa, siamo a disposizione”, spiegavano intercettati i capi di alcune cosche reggine.

Da “ruvidi montanari” a trafficanti internazionali
Da “ruvidi montanari” si erano trasformati in “trafficanti internazionali”, ha spiegato la pm della Dda di Bari Bruna Manganelli che ha condotto le indagini – sotto il coordinamento del procuratore capo Roberto Rossi e dell’aggiunto Francesco Giannella – insieme ai colleghi Ettore Cardinali, Luciana Silvestris e il sostituto della Dna Giuseppe Gatti, che negli scorsi anni era in servizio a Bari e ha inferto duri colpi alle mafie foggiane. “Da Vieste – ha aggiunto Gatti – i Li Bergolis hanno assunto un ruolo centrale nel traffico internazionale di droga, tessendo rapporti con interlocutori di primo piano della ‘ndrangheta reggina, raggiungendo una disponibilità economica che mai avevano avuto in precedenza”. Tradottasi in un sequestro da 10 milioni di euro di svariati beni nel corso del blitz.

Arrestati in 37: decapitato il gotha del clan
L’ordinanza di custodia cautelare firmata dalla giudice per le indagini preliminari Isabella Valenzi ha disposto il carcere per 37 indagati e gli arresti domiciliari per altri due, tra cui il boss di Vieste Marco Raduano, divenuto collaboratore di giustizia negli scorsi mesi dopo l’arresto in Corsica che ha messo fine a una latitanza di un anno iniziata con l’evasione dal carcere di Badu ‘e Carros. L’inchiesta – svolta congiuntamente da reparti di Polizia, carabinieri e Guardia di finanza – ha ricostruito gli ultimi quindici anni di dominio incontrastato dei Li Bergolis sul Gargano nonostante l’omicidio del patriarca Francesco Li Bergolis, detto Ciccillo, e la carcerazione di Franco, Matteo e Armando, rispettivamente condannati all’ergastolo il primo e a 27 anni gli altri due nel maxi-processo Iscaro-Saburo.

L’Antimafia: “L’alta sicurezza è inidonea ai boss”
Dal 2009, la contrapposizione dei Li Bergolis ai Romito-Ricucci-Lombardi ha lasciato una scia di sangue sul Gargano con 21 omicidi e 18 tentati omicidi. Il tutto nonostante i vertici fossero in carcere. A dimostrazione, secondo gli inquirenti, della “assoluta inidoneità del regime di alta sicurezza”, dove erano confinati i boss, ad “impedire il mantenimento dei collegamenti con il sodalizio mafioso di appartenenza e con i più vasti circuiti delle organizzazioni mafiose operanti nella provincia di Foggia”. Durante l’inchiesta è emerso infatti che venivano utilizzati pizzini, lettere e anche cellulari in carcere per tenere uno “stabile canale di collegamento” anche “in ambito carcerario” finalizzato alla “gestione della cassa comune, all’assistenza economica degli associati detenuti” nonché a commettere nuovi reati associativi e allo “sviluppo del traffico di droga”. Lapidarie le parole del procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo: “Non si cessa di essere mafiosi una volta che si viene arrestati”.

Gli affari sulla costa e gli effetti sugli enti locali
Così i Li Bergolis erano riusciti a mantenere una “allarmante spiccata vitalità operativa” e a compiere un “decisivo salto di qualità nel processo di modernizzazione”. Arrivati sulla costa, avevano preso il “controllo di Vieste”, dopo la guerra armata con i clan avversari, e quindi occupato “uno spazio significativo nella rete del narcotraffico internazionale”, diventando il più “affidabile interlocutore” dei cartelli albanesi e di importanti cosche della ‘ndrangheta reggina, hanno spiegato gli inquirenti. “Gli ingenti capitali derivanti dal narcotraffico internazionale hanno favorito il percorso di infiltrazione nel tessuto economico imprenditoriale, messo anche in evidenza dalle numerose interdittive antimafia disposte dal Prefetto di Foggia, con riferimento a imprese ritenute, in qualche modo, riconducibili o comunque collegate al clan”, è la ricostruzione della Dda di Bari. I pubblici ministeri ritengono che la “penetrante capacità di condizionamento mafioso” dei Li Bergolis abbia avuto “effetti anche sull’apparato politico-amministrativo locale” come dimostra lo scioglimento per mafia dei comuni di Monte San Angelo, Mattinata e Manfredonia.

“Reclutavano minorenni”
Ora gli arrestati, tra i quali figurano – oltre a Raduano e al suo braccio destro Gianluigi Troiano – anche i fratelli Miucci, ritenuti i referenti dei Li Bergolis, Orazio Pio La Torre, Lorenzo Ricucci e Tommaso Tomaiuolo devono rispondere a vario titolo di 48 capi di imputazione, con 25 degli indagati ai quali viene contestata l’associazione mafiosa. Nell’ordinanza è confluita una mole impressionante di materiale investigativo con 3.580 pagine di interrogatori di 18 collaboratori di giustizia, l’intercettazione di 75 smartphone, la videosorveglianza di 22 luoghi e decine di captazioni in carcere. Gli inquirenti hanno anche ricostruito come il clan avesse sviluppato anche la capacità di reclutare minorenni “con l’attivazione di un percorso di tutoraggio”, la cui affidabilità veniva testata impiegando le giovani leve in furti, rapine ed estorsioni.

X: @andtundo