Armi e affari, sangue e soldi che scorrevano a fiumi. La brama di comando e il dominio del clan Li Bergolis sul promontorio del Gargano sono raccontati nelle mille pagine con cui è stato ordinato il carcere per 39 affiliati. C’è dentro di tutto: le minacce a una pattuglia di carabinieri forestali costretti a ripiegare sotto la minaccia di kalashnikov e mitragliette, il racconto dei ricavi del narcotraffico distribuiti “con la pala” e la promessa di sterminare un’intera famiglia rivale, compresi i bambini, fino a cancellarne il cognome dalla faccia della terra. Un abisso, quello ricostruito dalla Dda di Bari guidata dal procuratore Roberto Rossi, durato decenni e ora forse definitivamente smantellato. Per comprendere lo strapotere della “più allarmante criminalità organizzata” della Puglia, come l’ha definita la giudice per le indagini preliminari Isabella Valenzi, capace di sopravvivere anche alle condanne degli storici capi evolvendosi in “mafia degli affari”, basta leggere alcuni episodi riportati nell’ordinanza di custodia cautelare.

I carabinieri messi in fuga con le mitragliette
È il 13 aprile 2017 quando una pattuglia dei carabinieri forestali controlla una masseria a San Giovanni Rotondo, frequentata da Pasquale Ricucci, poi ucciso due anni dopo. All’esterno ci sono tre auto, una delle quali ha sul tettuccio un lampeggiante come quelli in uso alle forze di polizia. I militari si avvicinano e vedono alcune persone fuggire. Prima che possano controllare la masseria, nella quale sono custodite delle armi, e che possano chiedere rinforzi alla centrale operativa, vengono circondati da almeno sei uomini armati con kalashnikov e mitragliette. L’uomo che guida il gruppo armato, sotto la minaccia delle armi, costringe il carabiniere ad interrompere la telefonata alla centrale operativa e a andarsene con i suoi colleghi. L’episodio è racchiuso in uno dei verbali di Marco Raduano, il boss di Vieste pentitosi negli scorsi mesi dopo l’arresto in Corsica che ha chiuso un anno di latitanza. I militari – emerge dagli atti e dalle annotazioni di servizio dei carabinieri minacciati – si allontanano ma chiedono subito i rinforzi. L’auto sulla quale stava fuggendo Ricucci viene intercettata, ma l’uomo riesce a fuggire. Sarà fermato dopo qualche tempo e portato in carcere.

“Devo ucciderli i bambini, cancellare il loro cognome”
Ma sono stati ricostruiti anche i propositi di vendetta degli indagati, impegnati in una faida senza fine che coinvolge clan rivali. Dice, intercettato, l’indagato Raffaele Palena parlando – riporta il gip – probabilmente di Michele D’Ercole del clan avversario dei Romito: “La famiglia gliela devo sterminare tutta… Tutti quanti devono morire… il cognome glielo devo cancellare… il cognome… maschi, femmine, bambini, tutti quanti”. E aggiunge: “Se mi devono sconfiggere a me o mi devono dare l’ergastolo o mi devono trivellare (crivellare, ndr) che non devono trovare più i pezzi, altrimenti devono fare quello che dico io. Fra un po’ si deve mettere addosso l’Fbi però io non mi fermerò mai, mi possono fermare solo se finisce il mondo”.

“Prendevamo i soldi con la pala”
Dagli atti emerge anche che il narcotraffico era il vero motore del clan, soprattutto a Vieste, paese che negli scorsi anni è stato al centro di una sanguinosa guerra di mafia tra gli uomini dei Li Bergolis e dei Romito dopo l’uccisione del boss Angelo Notarangelo. “Prendevamo i soldi con la pala.. Renzo prendeva quasi 20mila euro al mese… 20 mila euro al mese… solo Renzo. Noi prendevamo 7-8 mila euro al mese”, dice un indagato in un’intercettazione a disposizione degli inquirenti che nel corso dell’inchiesta hanno messo sotto controllo 75 smartphone, usato il troyan in decine di utenze e videosorvegliato 22 luoghi.

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