“Le nostre generazioni, coloro che vivono in questo tempo si trovano di fronte ad una ferita narcisistica estremamente difficile da elaborare, perché le grandi narrazioni, l’educazione – ma anche i testi scientifici – ci hanno sempre consegnato una prospettiva di homo sapiens come padrone del pianeta. Una centratura antropocentrica che caratterizza il nostro modo di pensare e di vedere e che non è più possibile né praticabile nel momento in cui scopriamo che la nostra autonomia è strettamente connessa alla dipendenza col sistema vivente: siamo acqua, aria, suolo; queste risorse ci costituiscono e da esse dipendiamo”. Ugo Morelli, neuroscienziato, professore di Scienze Cognitive all’Università di Federico II di Napoli, giovedì prossimo interverrà al festival, organizzato dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, “Transition Days 24”. Una tre giorni per discutere su come mettere in pratica la transizione, dal punto di vista della scienza, delle imprese. Ma anche dell’educazione, della psicologia e della cultura.

Lei sostiene che la transizione parte anzitutto dalla mente.

Mi occupo dei vincoli e delle possibilità che la nostra mente incontra quando deve cambiare idea e comportamento. La mente è tutt’uno con il nostro corpo e si forma nel rapporto con la realtà. Noi siamo un corpo che contiene un cervello, che esprime una mente nelle relazioni con gli altri. Mettere in discussione la prospettiva “di più è meglio” è estremamente difficile e la questione è se ce la farà l’homo sapiens a usare la propria competenza simbolica, il proprio linguaggio verbale articolato (che ha prodotto l’apparato tecnico-scientifico) a usare queste sue caratteristiche per non per autodistruggersi, ma per emanciparsi in maniera adeguata, scoprendo finalmente di essere parte del tutto e non sopra le parti.

Superare il narcisismo di cui lei parlava in apertura è però complicato nell’epoca del narcisismo diffuso.

Purtroppo il narcisismo è anche un bisogno indotto dal sistema socioeconomico capitalista, perché il capitalismo per funzionare ha bisogno di alimentare sistematicamente la nostra propensione a porsi al centro e a coltivare il nostro individualismo. Eppure oggi dalle neuroscienze cognitive e dalla psicologia sappiamo che è un paradosso concepire un io senza un noi: non c’è un figlio di donna o di uomo o una figlia di donna e di uomo che sarebbe capace di sopravvivere da solo alla nascita né di individuarsi e realizzarsi efficacemente nel corso della vita.

Lei ha studiato e raccontato tre sindromi dell’uomo di oggi rispetto al tema ambientale.

Sì. Prima in un libro che si occupa della vivibilità, Mente e paesaggio, pubblicato da Bollati Boringhieri, e ora in un libro appena uscito, scritto con il neuroscienziato Vittorio Gallese, Cosa significa essere umani. Corpo, cervello e relazione per vivere nel presente, Raffaello Cortina Editore, evidenziamo che siamo vittime di tre grandi sindromi: una è la sindrome dell’ “after you”, in altre parole “cominci lei a usare il mezzo pubblico perché devo cominciare io?”; la seconda sindrome è quella che abbiamo chiamato la “Titanic sindrome”, cioè la sindrome del Titanic che purtroppo è molto diffusa tra le generazioni che vivono oggi: “Figurati se c’è un iceberg sulla rotta! Continuiamo a ballare e a bere champagne!”; la terza è forse la più perniciosa, se queste non lo fossero già abbastanza, ed è la prospettiva secondo cui ci deve pensare qualcun altro, un’istituzione, il comune etc. “C’è traffico a Roma? Continuo a prendere la macchina, il problema è del sindaco”.

Come si esce da questa situazione?

Siamo concentrati a creare competenze basate su un apprendimento del presente, ma questo è esattamente il problema, perché se io e lei apprendiamo all’interno della cornice dominante e vigente apprendiamo a confermare l’esistente. Oggi però il problema è apprendere ad apprendere, ovvero rompere la cornice, gli schemi mentali, perché quel paradigma e quella cornice sono falliti. In altre parole abbiamo un grandissimo bisogno non di diventare più competenti, se essere competenti vuol dire essere competenti dentro la cornice esistente, ma di diventare più competenti a mettere in discussione le cornici.

L’educazione è centrale?

Esiste un aspetto micro e uno macro. L’aspetto micro è, appunto, l’educazione: purtroppo noi non educhiamo alla creatività ma educhiamo al conformismo, socializziamo alla ripetizione; l’educazione invece deve fare la sua parte nel rompere gli schemi. La buona notizia è che noi abbiamo la capacità creativa, la capacità di comporre e ricomporre in modi almeno in parte originali i repertori esistenti. Ma poi esiste l’aspetto macro.

Può spiegarcelo?

Le norme. Le faccio un esempio tra tutti: noi non smetteremo mai di fare una cosa tremenda che è lavare le automobili con l’acqua potabile, sapendo che ci saranno alcune guerre per l’acqua nei prossimi anni, se non ci sarà una norma che lo vieta, non ci sono dubbi su questo. Il comportamento umano è fatto di autonomia e di regolazione. Ma non c’è una sola realtà politica che si ponga seriamente il problema di come normare certi comportamenti e anche l’aspetto regolatorio sul fronte ambientale è completamente assente nel campo del diritto.

Che ruolo ha, in conclusione, la bellezza nell’aiutarci a cambiare gli schemi?

La bellezza, un paesaggio, un brano musicale, un’opera d’arte scultorea o pittorica, genera in noi una risonanza incarnata che passa attraverso i cinque sensi e aumenta la possibilità per me di capire meglio me stesso, di sentire più adeguatamente il mondo e quindi di avere con la realtà una relazione che è basata sul riconoscimento di una struttura che connette, che ci faccia sentire parte del tutto e che non è soltanto, ripeto la piacevolezza. In generale, comunque, io credo che ci vorrebbe la costruzione di una mitografia mite, cioè di un mito che non sia aggressivo e distruttivo rispetto al mondo.

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