“Di solito si vede la lotta delle piccole ambizioni, legate a singoli fini privati, contro la grande ambizione, che è indissolubile dal bene collettivo”. Evocare Gramsci per avvicinare Berlinguer. Non poteva che aprirsi con la nota citazione del fondatore del PCI il film di Andrea Segre dedicato all’indimenticabile segretario comunista titolato – non caso – Berlinguer. La grande ambizione. Un’ambizione che non poteva, ai tempi, considerarsi un’illusione, per quanto “gramscianamente” grande rimanesse “perché di importanti risultati ne furono ottenuti in quegli anni dal PCI insieme, a suo modo, alla DC” spiega Segre commentando il suo lavoro che ha aperto in concorso la 19ma Festa del Cinema di Roma (16-27 ottobre). Non un biopic su Berlinguer, bensì il racconto appassionato del suo agire dal 1973 al 1978, e ancor più precisamente in quel biennio del ’75-76 che espresse il cuore del pensiero berlingueriano, nell’estenuante determinazione a costruire la sua grande ambizione, ovvero il compromesso storico con la DC di e con Aldo Moro. La Storia segnò il triste epilogo di un’ambizione che rimase un’utopia irrisolta, ma è pur vero che a quel tempo era possibile e doveroso crederci. Su questo, dunque, si concentra la narrazione sceneggiata da Marco Pettenello insieme a Segre in una produzione Vivo Film con Joefilm e Rai Cinema che vedremo distribuita da Lucky Red il prossimo 31 ottobre.
Perfetto come sempre, nei panni del protagonista si erge Elio Germano, mai mimetico, sempre interprete, stavolta dentro a un corpo che “prossemicamente mostrava tutta l’inadeguatezza e la fatica di Enrico, quella sua meravigliosa mancanza di narcisismo, del resto era un segretario non un leader, sapeva essenzialmente ascoltare, e dall’ascolto desumeva le sue riflessioni”, sottolinea l’attore romano.
Generato nei pensieri di Segre mentre girava Welcome Venice, Berlinguer. La grande ambizione si tiene effettivamente distante dai canoni del biopic, concentrandosi invece con rigore e filologia sulla voce concettuale e popolare di Berlinguer, la cui attività politica espressa nelle frequentazioni del mondo operaio-proletario, le sedute parlamentari, le assemblee di partito, (più interessanti di tutto) i viaggi bulgari e russi (il suo intervento al Cremlino è di grande impatto sia cinematografico che politico) e i due incontri privati con Aldo Moro (mai messi in scena precedentemente in un film) si alterna al ricco materiale di repertorio, spesso accompagnato da musica malinconica, a suggellare il carattere nostalgico del film.
È la nostalgia infatti, l’emozione più suscitata durante la visione del lungometraggio, sempre in bilico tra la messa in scena e il footage, così come il senso del cinema per Segre è un perenne viaggio sul confine tra finzione e realtà. Non può che mancarci una figura della statura di Berlinguer, capace di tenere tutto insieme e di guardare oltre gli ostacoli provenienti tanto da Est quanto da Ovest dentro a quello che fu il più grande Partito Comunista d’Occidente. Guardando più al modello di cinema militante di Francesco Rosi che non a quello psicanalitico di Marco Bellocchio per quanto riguarda la rilettura storico-politica, il racconto di Segre è certamente un omaggio al grande statista nel quarantennale della sua scomparsa (giustamente non messa in scena) ma anche un buon esempio di cinema didattico su un frangente essenziale della nostra Storia da portare alle nuove generazioni contemporanee.