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Dario Morello mette ko i luoghi comuni sulla boxe: “Troppo attaccata alla tradizione, ci sono evidenze scientifiche e studi nuovi. Usiamoli”

Dario Morello, il personaggio più mediatico della boxe italiana per la capacità di fare numeri sui social anche al di fuori dell’argomento sportivo, è un ottimo pugile. “Ottimo pugile… grazie al cazzo, ventitré vittorie in carriera e una solo sconfitta”. Lei è anche il pugile più antipatico d’Italia? “Più che altro detesto dire cose che non penso”. In questa intervista Morello, impegnato il 16 novembre nella riunione all’Allianz Cloud di Milano, sfaterà alcuni luoghi comuni sul pugilato. E a dire il vero anche con molta disponibilità, senza dimostrarsi per nulla sgradevole. A 31 anni, è quasi saggio.

Come sta andando la preparazione per l’incontro contro Felice Moncelli?
“Sono stato fermo più del solito, oltre due mesi, dopo il match con Chiancone, per un problema al dito e per l’operazione alla cervicale. Successivamente c’è stata una fase di carico maggiore nella preparazione”.

La immaginiamo come Rocky Balboa a correre. Quanti chilometri ha fatto oggi?
“Io ho sempre detestato arrendermi al ditktat dogmatico dei vecchi maestri. Il pugilato è troppo attaccato alla tradizione. Ci sono evidenze scientifiche e studi nuovi. In tre giorni ho fatto 60 round di pugilato, cosa mi serve andare a correre? Scommettiamo che ho fatto fiato anche così?”.

Altri luoghi comuni?
“Le guerre negli sparring con un campione, magari pagandolo tanto. Non si devono lasciare pezzi di se stessi in palestra, non ci si deve fare male. Basta trovarne uno bravo, non più bravo di te sennò passi il camp a prendere schiaffi in faccia e arrivi demoralizzato al match e ovviamente deve assomigliare al tuo avversario, trova per esempio un guardia normale se avrai di fronte un guardia normale”.

La boxe è uno sport che può diventare pericoloso.
“In palestra bisogna salvaguardare la salute, proteggersi senza fare gli eroi. Indossare sempre il casco, controllare ogni volta i guanti propri e quelli del tuo sparring partner. Mi metto dei guanti vecchi così chi ho di fronte sente di più i colpi, ma non ha senso! Bisogna farsi male, al limite, quando ti pagano per farti male”.

Come ci è arrivato a queste conclusioni?
“Sono stato buttato in mezzo ai lupi già in nazionale da dilettante. I compagni più grandi ti battevano perché ti vedevano come un loro futuro rivale. Ma così non si impara niente, anzi vengono mortificate le capacità di entrambi. Al mio angolo oggi c’è papà Ercole, che ha grande capacità di osservazione. Mi ha aiutato molto anche lui a capire come vanno le cose. In ogni caso arrivare a capire che un cazzotto in più fa male è abbastanza semplice, ma spesso noi pugili ci facciamo prendere appunto dai luoghi comuni”.

Lei in questo senso parte avvantaggiato da una boxe basata più sul movimento e sulla tecnica che sul colpo potente.
“Ma anche un fighter non può arrivare bollito al match. Il maestro Rosi in nazionale diceva che la testa del pugile è come un salvadanaio e i pugni delle monetine che quando lo riempiono lo devi rompere. Ricordo Miguel Cotto che prendeva tutti i colpi e poi comunque metteva giù gli avversari, ma tempo dopo avrebbe tremato sui jab di chi negli anni migliori gli avrebbero fatto il solletico. Aveva riempito il salvadanaio. Ed io sono solo un pugile comunissimo, lui era bestiale. Un tempo non combattevo come oggi, perché in nazionale pagava davanti ai giudici un altro tipo di boxe”.

Che ne pensa dell’Olimpiade fallimentare dell’Italia?
“Il problema è sempre lo stesso, quello per cui io sono andato via da titolare prima delle qualificazione per Rio 2016. Si agisce seguendo chi la spara più grossa, in quegli anni c’era un preparatore russo che ci faceva correre in montagna sotto la neve alle tre di mattina, dieci chilometri e vinceremo l’olimpiade, diceva. Ma erano più quelli che si prendevano il raffreddore. Oggi si è andato dietro ad altre cose paradossali, ma il concetto rimane quello. La roba assurda è che a Parigi i pugili non avevano più benzina già alla prima ripresa”.

Il professionismo come se la passa?
“Sta risorgendo piano piano dopo che per anni è stato il piano b di chi non veniva convocato in nazionale. Eccetto alcuni campioni usciti negli ultimi venti anni. Prima bastava essere forti, oggi bisogna essere anche mediatici. La boxe purtroppo in Italia non interessa a nessuno, va detto francamente. Ma se crei curiosità per un tuo video su youtube dove fai dell’altro, magari qualcuno in più verrà a vederti, se poi questi apprezzerà un altro pugile anche solo per un vestiario eccentrico, seguirà in futuro sia tu che l’altro. E poi come diceva il grande Mayweather: che comprino il biglietto per vederti vincere o per vederti perdere, i soldi al botteghino valgono alla stessa maniera”.

È in possesso della cintura Wbc del Mediterraneo, pesi medi. È stato campione italiano e di altre svariate cinture di sigle non tra le cinque principali. Avrebbe avuto una carriera diversa all’estero?
“Se ci fossi andato con un contratto a sei zero per sette anni, chiamato da un’organizzazione che lavora sull’atleta, avrebbe avuto senso. Fare semplicemente lo straniero all’estero, non serve a niente, perché di Dario Morello in America ce ne sono dieci in ogni palestra, gente che non arriverà mai a fare quello che ho fatto io in Italia, a livello di titoli”.

È al secondo Main event della TAF, nella riunione in cui combatterà anche suo cugino Roberto Lizzi contro l’imbattutto Jonathan Kogasso.
“Sarà un bel match tra un picchiatore come Moncelli e un tecnico come me. Gli appassionati adorano questo tipo di incontri. Moncelli è inferiore tecnicamente, ma ha le palle e non ha paura dei colpi e dei match, è sempre andato fuori casa a vincere e a perdere senza timore. All’angolo ha uno dei maestri più bravi in circolazione, Simone D’Alessandri. Ha tutta la mia stima, però io voglio fare cose grandi in carriera e se Moncelli mi impegnerà più del dovuto, significa che dovrò rivedere qualcosa dei miei progetti”.

Il suo futuro?
“Da atleta vorrei portare sempre più persone al palazzetto, ho bisogno di una promotion stabile, potrebbe essere la Taf, ma come ogni rapporto lavorativo deve continuare a portare guadagno a entrambe le parti. Per il momento sono ancora free agent. Nel frattempo gestisco già due palestre nel bergamasco, dovrei esordire all’angolo dei dilettanti. Mi piace molto, ma mi piace ancora di più lavorare nella promotion, come manager e organizzatore di eventi. Servono professionisti in tutti i campi perché non c’è nulla del professionismo se un pugile per fare un titolo prende tremila euro, in un palestra delle scuole medie, con la locandina fatta dall’amico”.

La foto in evidenza è per gentile concessione di Greta Moret