Stamattina, mentre i sedici migranti egiziani e bangladesi sono sbarcati nel porto di Shengjin, sulle mura di cinta dell’hotspot sventolavano la bandiera italiana e quella europea, alla faccia della Commissione Ue che lo scorso novembre, con timidezza, precisava in una prima valutazione che l’accordo Italia-Albania “non viola la legge dell’Ue, ma che è al di fuori da questa”. Parole dell’allora commissaria agli Affari interni Ylva Johansson. Le elezioni europee con l’avanzata delle destre in buona parte dell’Unione hanno modificato gli equilibri, e non ha torto la premier italiana Giorgia Meloni quando dice che il Protocollo con l’Albania “rispecchia perfettamente lo spirito europeo”. Spirito che la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha interpretato anche nella lettera appena inviata ai leader Ue per rilanciare l’azione sui rimpatri dei migranti irregolari. “Dovremmo anche continuare a esplorare possibili strade da percorrere riguardo all’idea di sviluppare centri di rimpatrio al di fuori dell’Ue, soprattutto in vista di una nuova proposta legislativa sui rimpatri. Con l’avvio delle operazioni previste dal protocollo Italia-Albania, saremo anche in grado di trarre lezioni pratiche”. Che non si tratti dell’endorsement rivendicato ieri in Parlamento da Meloni lo ha precisato, in vista del Consiglio Ue, la portavoce della Commissione che ha risposto alla stampa sul tema migranti, il più scottante e divisivo del summit al via da oggi.
“Stiamo attenti alle parole“, ha esordito la portavoce Anitta Hipper. “Attualmente non è possibile avere questa opzione. Dovremmo regolare il rimpatrio verso Paesi terzi, che non sono quelli di origine. Una possibilità alla quale stiamo guardando”, ha spiegato pur senza dare valutazioni sui centri aperti dall’Italia in Albania. In altre parole, l’accordo albanese è guardato come un esperimento dal quale trarre riflessioni utili a implementare la legislazione sui rimpatri, che von der Leyen pensa di concretizzare anche con degli hub in Paesi terzi. Piano che è ancora tutto da mettere in piedi, a partire dalla base legislativa, e non è replicabile nei modi concordati tra Roma e Tirana. Perché si tratta di un accordo esclusivo in virtù del rapporto tra i due Paesi, come ha ribadito il premier albanese Edi Rama, e perché l’Italia agisce in una sorta di frontiera extraterritoriale dove vige la sua giurisdizione, non quella del Paese terzo, l’Albania. In altre parole, il governo fa lì esattamente quello che farebbe in Italia e il diritto europeo, pur non contemplando applicazione oltre il territorio degli Stati membri, vincola ugualmente ognuno di essi. Una matassa che nessuno, finora, ha voluto sbrogliare, tantomeno la Commissione.
Così ognuno dice un po’ quel che vuole. Dalle più assertive dichiarazioni di Meloni, che giustamente rivendica il ruolo di apripista incassando, se non la legittimazione che non ci può essere, un appoggio interessato. A quelle di von der Leyen, decisamente più ambigue, almeno per chi da mesi chiede una presa di posizione netta sul Protocollo Italia-Albania, ma pur sempre indicative dello “spirito europeo” di cui parla la stessa Meloni. A Bruxelles la stampa ha provato a chiedere conto alla Commissione di quella che a molti è sembrata una legittimazione della presidente, “mentre nei mesi passati era stato spiegato che le persone, anche quelle che non hanno ottenuto l’asilo, non possono essere portate in Paesi terzi diversi da quelli di origine: cosa è cambiato”? Ancora una volta, si considerano sovrapponibili piani che non lo sono. E tuttavia, parafrasando in sintesi la risposta della portavoce, non è cambiato nulla. Perché l’interesse per l’operazione Albania (non la sua legittimazione) è funzionale a un’implementazione del Patto migrazione e asilo, approvato a maggio dal Parlamento Ue ma operativo da metà 2026, che la Commissione vorrebbe più efficace sul fronte dei rimpatri, magari trovando il modo di effettuare le procedure in hub esternalizzati grazie alla collaborazione diretta di Paesi terzi. Mentre all’Albania, per usare le parole di Rama, “non interessa quello che accade dentro i centri” gestiti dall’Italia. Questioni di lana caprina che fanno dei 16 migranti appena sbarcati a Shengjin le cavie dei desideri di una parte dell’Unione europea.
Ma non è tutto. L’impossibilità di una legittimazione che non sia soltanto politica non significa una delegittimazione. Tornando a citare la discussa dichiarazione della commissaria Johansson – “l’accordo non viola il diritto Ue ma ne è al di fuori” – va sottolineato un aspetto che può apparire scontato: quel che l’Italia fa in Albania lo fa in qualità di Stato membro dell’Unione europea. La bandiera che sventola accanto al tricolore sui muri che circondano l’hotspot non sta lì a rappresentare lo “spirito europeo” di cui parla Meloni e che anche von der Leyen si impegna a interpretare. Intanto perché sul tema dei migranti quello spirito resta al centro di tensioni che anche al Consiglio di oggi fotografano un’Unione “stretta tra la spinta dei falchi sulla migrazione, i dubbi di Berlino e Parigi, la resistenza della Spagna. Il dibattito rischia di sfociare in uno scontro aperto. Le conclusioni rischiano di ridursi a poche righe solo per evitare che saltino completamente. Lo stesso riferimento all’attuazione del Patto sulla migrazione e asilo non trova d’accordo tutti, a partire da Viktor Orban che presiede la riunione”, scrive l’Ansa. Più banalmente, la bandiera dell’Ue rappresenta le istituzioni e le leggi europee che regolano la vita della comunità dei suoi membri. In quanto tale, dice la Costituzione, l’Italia rispetta i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario. Compresa l’ormai famosa quanto taciuta sentenza della Corte di giustizia europea che ha demolito il presupposto per portare in Albania i richiedenti asilo, compresi egiziani e bangladesi. Paesi che l’Italia considera sicuri ad esclusione di determinate categorie di persone a rischio, mentre per diritto Ue, dice la Corte, un Paese è sicuro per tutti o non lo è. I giudici italiani, forse già domani o venerdì, si esprimeranno per convalidare o piuttosto invalidare i trattenimenti. La bandiera Ue sta lì a ricordare che lo faranno in quanto giudici europei, vincolati al parere della Corte di giustizia dell’Unione europea. Prima di impugnare le loro decisioni sarà bene pensarci.