“È una storia di ragazzi che diventano uomini, di compagni di squadra che diventano fratelli, di giocatori che diventano campioni, magnificamente raccontata dalla più grande stella del basket di tutti i tempi”. John Grisham, uno che di grandi libri indubbiamente se ne intende, presenta così Shooting stars, l’autobiografia bestseller di LeBron James che esce oggi in Italia (Libreria Pienogiorno, euro 18,90).
Paragonato a un caposaldo come Open di André Agassi – non per niente pure queste pagine nascono dalla collaborazione con un premio Pulitzer, Buzz Bissinger, in questo caso – anche il memoir di LeBron è in fondo un solidissimo romanzo di formazione, il coming of age entusiasmante di un bambino povero, figlio di una ragazza madre, nato in una cittadina dimenticata perfino dalle carte geografiche, in uno di quei quartieri dove non vorresti mai far vivere ai tuoi figli, tra violenza, abuso di droghe e il lugubre canto delle sirene della polizia come sottofondo perenne, destinato prima a lottare – con un gruppo di ragazzi squadernati come lui – per affermare la propria esistenza e quindi a cambiare la storia della pallacanestro, e forse non solo di quella. “Ti giudicheranno, alcuni ti odieranno, cercheranno di farti vacillare e di spezzarti, ma sarà solamente la forza che opponi a definirti” dice King James, che anche alla soglia dei quarant’anni non ha smesso di inanellare record.
L’ESTRATTO IN ESCLUSIVA
Sono nato nel dicembre del 1984 in una casa di Hickory Street, ad Akron, Ohio, mantenuta principalmente dalla madre di mia madre. Era una donna meravigliosa che ci ha aiutato molto. Ma, nelle prime ore del mattino di Natale quando io avevo tre anni, mia nonna morì di infarto. Aveva quarantadue anni. È tipico di mia madre non avermelo detto finché non ebbi aperto tutti i miei regali, tra cui un piccolo canestro di plastica, che per reazione gettai a terra.
La casa era un grande e spazioso edificio vittoriano con una veranda sul davanti, un ampio soggiorno, una sala tv e una cucina con dispensa al pianoterra, e quattro camere da letto al primo piano. Senza mia nonna, diventò sempre più difficile mantenerla. L’impianto idraulico e quello elettrico perdevano colpi, ma per riparare una casa vecchia ci vogliono molti soldi, e noi non ne avevamo. Alla fine intervenne il Comune, che dopo varie ordinanze di sgombero, prima dichiarò l’immobile inagibile e poi lo rase al suolo.
A quel punto cominciarono i traslochi. Avrei potuto lamentarmi, immagino: quando sei molto piccolo, essere sradicato non è un bel modo di vivere. Tra i cinque e gli otto anni traslocai dodici volte. Ma lamentarsi non sarebbe servito a niente. Avrebbe solo aumentato la pressione su mia madre, che si sentiva già abbastanza in colpa. E comunque non sono mai stato il tipo che si lamenta. Così quando veniva il momento mi limitavo a prendere il mio zainetto, che conteneva tutto quello di cui avevo bisogno, e mi dicevo ciò che mi sono sempre detto: è ora di andare.
C’era qualcosa di tragico in questo? Certo che sì. C’era qualcosa di pericoloso? Certo che c’era. Non solo per le sirene della polizia e le sparatorie che erano la colonna sonora dei vari posti in cui vivevamo, ma per il rischio concreto che come tanti ragazzi afroamericani io finissi schiacciato dalle difficoltà di quella vita.
In quarta elementare feci quasi cento giorni di assenza perché la scuola era dalla parte opposta della città, e spesso non avevo i mezzi per arrivarci. È il tipo di vita che genera una mancanza di fiducia, la sensazione che ciò a cui tieni e gli amici che ti sei fatto scompariranno, perché tu sai – lo sai e basta – che continuerai a spostarti da un luogo all’altro, tenendo sempre pronto quello zainetto perché è di nuovo ora di andare.
La cosa peggiore era cambiare scuola e conoscere nuovi compagni per poi dover cambiare un’altra volta e fare amicizia di nuovo, e ricominciare all’infinito.
Allo stesso tempo, questo mi faceva capire che, ovunque andassimo, avrei dovuto essere responsabile di me stesso. Che mi piacesse o no, è così che mi trattava mia madre. A volte andavo a letto senza sapere se l’avrei vista il mattino dopo. A volte passavo varie notti senza vederla affatto. Temevo che un giorno mi sarei svegliato e avrei scoperto che se n’era andata per sempre.
Era l’unica cosa che mi importava quand’ero piccolo: svegliarmi e sapere che mia madre era accanto a me, ancora viva. Già non avevo un padre, non volevo trovarmi senza entrambi i genitori. Potevo solo sperare e pregare che fosse sana e salva, perché sapevo che stava cercando di fare il meglio che poteva per me. Ma lei tornava. Metteva il cibo in tavola nel giorno del Ringraziamento come chiunque altro, e tutto ciò che chiedevo nella letterina a Babbo Natale finiva sempre sotto l’albero. Non so come ci riuscisse, e non gliel’ho mai chiesto. Perciò, per quanto fossi spaventato a volte, per quanto la vita fosse difficile a volte, tutto questo me la faceva solo amare di più. Era una certezza assoluta: sapevo che nella sua vita nessuno era più importante di me. Non avete idea di cosa significhi, quando cresci senza tante delle cose essenziali che dovresti avere. Non avete idea della sicurezza che vi infonde, di come vi fa pensare: ehi, posso farcela. Posso sopravvivere.