In scena al Teatro dell’Opera di Roma fino al 19 ottobre, Peter Grimes (composto nel ’44 e debuttato l’anno dopo a Londra) di Benjamin Britten su libretto di Montagu Slater tratto dal poema The Borough di George Crabbe, è una tragedia moderna sul tema, eminentemente novecentesco, della pressione sociale esercitata dalle convenzioni (morali, economiche, religiose) sull’individuo. Un’opera dall’intensità emotiva straziante, la cui esecuzione presente non comuni difficoltà, per la continua varietà melodica e ritmica della partitura, e che anche registicamente esige un impegno fuori dal comune, nella convulsa gestione drammatica dei molti personaggi.
Una sfida felicemente vinta da Deborah Warner e per sottolinearlo consentitemi di utilizzare due espressioni facilmente giornalistiche: le tre ore e mezza di rappresentazione (intervalli inclusi) di una vicenda non esattamente spensierata non solo “filano via”, anzi tengono “lo spettatore incollato alla sedia”. Scelgo questo registro d’immediata comprensione proprio perché l’opera trova nell’anima popolare la chiave creativa della sua felicità (nell’immane tristezza del racconto): un grande pregio, esaltato dalla stupenda regia di Deborah Warner, è proprio la capacità di restituire in maniera vivida e credibile (senza tradire l’eleganza poetica del testo) il fermento popolare dei bassifondi, sfuggendo a quell’effetto artificioso di rappresentazione del linguaggio popolare che talvolta ha afflitto goffi tentativi in tal senso.
Le scene ambientate nel porto o nella taverna della “Zia” sono non solo credibili, ma travolgenti, sembrano squarci caravaggeschi in movimento. Nelle scelte di Warner non troverete né volgarità gratuita, né impacciata edulcorazione: il predicatore religioso è un esaltato vero, la borghese pettegola è autenticamente odiosa, le prostitute sono lascive e desiderabili. Niente è caricatura, tutto è più che plausibile, autentico, vivo sulla scena.
Sull’imponente gioco drammatico, domina, chiaramente, Allan Clayton, un Peter Grimes dolente e testardo, vittima della crudele stupidità della gente quanto carnefice ottuso di se stesso, commovente quanto più stolido nel non accorgersi che la sua volontà di dominare le convenzioni materialistiche (fare soldi per stroncare i pettegolezzi) è il modo più sciocco per soccombervi: “non puoi compare la tua pace” gli dice la dolcissima Ellen (incarnazione adorabile del fallimento sociale della “bontà”), interpretata con pathos semplice quanto penetrante da Sophie Bevan. Un plauso a tutti gli interpreti, tra cui ricordiamo per brevità il Capitan Balstrode di Simon Keenlyside, Swallow interpretato da Clive Bayley e Ned Keene da Jacques Imbrailo.
Lunghissimi applausi, ma forse non abbastanza, per la conduzione di Michele Mariotti (e ricordiamo sempre il lavoro prezioso del Maestro del Coro Ciro Visco): un’interpretazione in grado di districarsi abilmente in una selva di svolte continue tra il lirico e il greve, il canto popolare e i richiami a Stravinskij, in cui attraverso l’influenza di Mahler si sentono addirittura echi wagneriani; eppure, per il respiro melodico, al primo ascolto si potrebbe collocare (anche senza pregresse informazioni) la creazione dell’opera quale coeva all’esplosione della musica popolare “riproducibile tecnicamente”, dopo la caduta dell’”aura” evocata da Walter Benjamin.
Eppure, in un’opera così emotivamente cangiante, in cui lo sfondo tragico è attraversato da lazzi satirici ed esplosioni quasi violente, il finale è uno spiazzante anticlimax. Nell’elogiare il sempre riuscito lavoro critico del libretto di scena Sconfinamenti, vorrei citare Carla Moreni: “Peter entra in scena, “stanco e impazzito”, come vuole la didascalia. Inseguito da fantasmi, che gridano il suo nome: “Grimes! Grimes!” (…) Poi si spoglia di ogni colore nella voce, chiedendo all’interprete l’ultimo sforzo: varcare il limite del canto, andare al di là, salvare il carattere quasi sacro della parola. Come aveva fatto Monteverdi, con l’Orfeo. Là era partito il teatro in musica. Qui si forgia uno dei ruoli vocali più straordinari, e nasce il teatro di Britten”.
Una morte travolta dal ritmo quotidiano, dalla macchina a cui non si sfugge di Deleuze, accolta con indifferenza dopo il tumulto forcaiolo. Il messaggio è perenne, come nel mito della caverna platonica, come nel finale apocalittico non a caso degli “hollow men” di T.S.Eliot: “Questo è il modo in cui finisce il mondo/ Non con uno schianto ma con un lamento”.
Foto tratta dalla pagina Facebook del Teatro dell’Opera di Roma