Non c’è solo la testimonianza di Mark Perlmutter, il chirurgo ebreo americano che ha prestato servizio al Gaza European Hospital per conto dell’Oms tra marzo e aprile e che ha raccontato, sia al Fatto Quotidiano che al congresso Usa di aver soccorso, tra gli altri, anche bambini con “proiettili di cecchini conficcati nel loro petto” in alcuni casi “colpiti due volte” anche con proiettili “al lato della testa”. Secondo una recente inchiesta del New York Times sono decine i medici volontari che hanno prestato servizio nella Striscia che hanno testimoniato di aver curato bambini colpiti alla testa o al petto.
Nell’indagine il dottore Feroze Sidhwa, chirurgo generale e traumatologica, che ha lavorato per due settimane all’ospedale europeo di Khan Yunis, partendo dalla propria esperienza personale, raccoglie le testimonianze di 65 sanitari americani tra medici, infermieri e paramedici, che hanno prestato servizio a Gaza dal 7 ottobre 2023. Di questi, 57 ci hanno messo la faccia, condividendo la loro esperienza con nome e cognome, mentre otto hanno partecipato in forma anonima, temendo ritorsioni sul luogo di lavoro o verso i loro familiari ancora coinvolti nel conflitto. “Quasi ogni giorno mentre ero lì – racconta Sidhwa – vedevo un nuovo bambino colpito alla testa o al petto. Praticamente tutti sono morti, tredici in totale”.
Dei 65 sanitari coinvolti nell’indagine, tra cui lo stesso Perlmutter, 44 hanno detto al New York Times di aver “assistito a numerosi casi di bambini e preadolescenti colpiti alla testa o al petto“, 9 hanno dichiarato di non aver incontrato casi simili, mentre 12 hanno detto di non aver curato regolarmente minori in un contesto di emergenza. “Una notte al pronto soccorso – ha raccontato Mohamed Rassoul Abu-Nuwar, chirurgo di 36 anni – nell’arco di quattro ore ho visto sei bambini tra i 5 e i 12 anni tutti con ferite d’arma da fuoco al cranio”. Situazione simile vista da Irfan Galaria, che ha raccontato di aver visto in un solo turno “quattro o cinque bambini di età compresa tra i 5 e gli 8 anni” tutti arrivati al pronto soccorso con “un colpo singolo alla testa” e tutti, purtroppo, deceduti. Colpiti da cecchini? Non si ha la certezza. Ma è questo il racconto fatto al chirurgo texano Khawaja Ikram: “Ho visto un bambino di tre anni e uno di cinque entrambi con un singolo foro di proiettile in testa – ha raccontato – Quando ho chiesto cosa fosse successo, il padre e il fratello hanno detto che era stato detto loro che Israele si stava ritirando da Khan Younis. Così sono tornati per vedere se era rimasto qualcosa della loro casa. C’era, hanno detto, un cecchino in attesa che ha sparato a entrambi i bambini”. Un evento che per l’anestesista Ndal Farah è stato “quotidiano”: “Ho visto molti bambini e nella mia esperienza la ferita da arma da fuoco era spesso alla testa – ha confessato al New York Times – Molti avevano danni cerebrali permanenti e non curabili. Era quasi un evento quotidiano che i bambini arrivassero in ospedale con ferite da arma da fuoco alla testa”.
L’indagine del quotidiano non si è soffermata solo sui casi di bambini colpiti da proiettili, ma ha analizzato altre situazioni di malasanità ormai conclamata a Gaza.
Di 65 sanitari intervistati, quasi tutti, 63 tra medici, infermieri e paramedici, hanno osservato gravi casi di malnutrizione sia tra i pazienti che tra la popolazione in generale. Una condizione così diffusa, testimonia Ndal Farah che “era come vedere pazienti che ricordavano i campi di concentramento nazisti con caratteristiche scheletriche”. Secondo l’esperienza dell’infermiere Abeerah Muhammad, tutte le persone incontrate “avevano perso dai 20 ai 60 chili di peso” e la maggior parte dei pazienti e del personale sanitario “sembrava emaciata e disidratata”. Una situazione che, secondo il pediatra Aman Odeh riguardava anche le neomamme che spesso “a causa della disidratazione e di un’adeguata fornitura di cibo” non producevano latte, oltre a partorire prematuramente.
Cinquantadue operatori sanitari, inoltre, hanno raccontato di aver osservato un disagio psichico generalizzato nei bambini, molti dei quali hanno detto loro di pensare al suicidio o di aver desiderato morire. I racconti sono strazianti. Mimi Syed, dottoressa d’urgenza, ha raccontato di una bambina di quattro anni con gravi ustioni sul corpo “completamente dissociata”: “Fissava il vuoto, canticchiando una ninna nanna. Era completamente sotto choc”. E ancora, racconta Tanya Haj-Hassan, dottoressa di 39 anni: “Un bambino che aveva perso tutta la sua famiglia avrebbe voluto essere ucciso anche lui”. Stessa testimonianza raccolta anche dal dottore autore dell’indagine, Feroze Sidhwa: “Un bambino gravemente ferito, un ragazzino con l’amputazione della gamba destra e il braccio destro e la gamba sinistra rotti, ha ripetutamente chiesto alla madre perché non potesse essere morto insieme agli altri membri della sua famiglia”. Insomma minorenni traumatizzati, spesso incapaci anche di parlare con i loro familiari sopravvissuti, molti con il desiderio di poter raggiungere quelli, purtroppo, scomparsi.
Non solo disagi psicologici. La malasanità diffusa a Gaza è stata tangibile anche nelle cure quotidiane dei bambini. Anche i piccolissimi. 25 dei sanitari intervistati, infatti, raccontano di aver visto bambini nati sani tornare poco dopo in ospedale e morire di disidratazione, fame o infezioni causate dall’incapacità per le madri malnutrite di allattare o dalla mancanza di latte artificiale. Le infezioni, anche facilmente prevenibili, poi, hanno causato la morte di diversi bambini, come testimoniato da 53 dei medici, infermieri e paramedici intervistati, oltre che amputazioni e altre complicanze. “Donne e ragazze utilizzavano ritagli di tende e pezzi di pannolini, asciugamani e stoffa come assorbenti mestruali, contraendo la sindrome da shock tossico”, ha raccontato l’infermiera Abeerah Muhammad. Infezioni che spesso nascevano anche per l’assenza di materiale sanitario. Secondo quasi tutti i sanitari intervistati dal New York Times, infatti, (64 su 65), a Gaza non sono stati disponibili neanche beni di prima necessità, come sapone e guanti. Una situazione estrema che ha portato a “riutilizzare attrezzature monouso”, a non poter usare antidolorifici perché non disponibili, e a dover operare con “mosche ovunque”, tanto che, testimonia uno pneumologo, “ho visto larve di mosca uscire dalle ferite“.
Il Nyt ha provato a chiedere conto alle Forze di difesa israeliane di quanto testimoniato dagli operatori sanitari, in particolare in merito alle ferite d’arma da fuoco riscontrate in diversi bambini. Ma la risposta è stata generica: “Le IDF si impegnano a mitigare i danni ai civili durante l’attività operativa. In questo spirito, le IDF compiono grandi sforzi per stimare e considerare potenziali danni collaterali ai civili nei loro attacchi. Le IDF si impegnano pienamente a rispettare tutti gli obblighi legali internazionali applicabili, inclusa la legge sui conflitti armati”.