Politica

Prima il potere, poi la giustificazione ideologica: Giuli è più leninista che gramsciano

Il Partito Democratico non vuole combattere la battaglia dell’egemonia. Consolato dalla certezza di averla vinta, esso si adagia ancora sul senso di superiorità, che ha però ampiamente esaurito la propria forza propulsiva e il suo ruolo di collante per i sedicenti ottimati; e soprattutto trae consolazione dall’essere una sorta di apparato parastatale presente in tutti i gangli della vita pubblica, culturale, politica ed economica del paese, ancora saldamente capace di controllare e rappresentare gli interessi anche per mezzo dell’occupazione dei centri decisionali grandi e piccoli. Insomma, perfetta crasi tra Pci e Democrazia Cristiana.

La scarsa lungimiranza di questo atteggiamento si fonda sull’idea che finché la destra non si avvicina troppo, si può stare tranquilli, e che ci sono ancora dei margini di manovra. Come è ovvio, quando tutto sarà travolto, non l’avranno vista arrivare. Ma perché “non si avvicina troppo”, se la destra governa saldamente il paese e gode di una enorme popolarità nell’opinione pubblica? Semplicemente l’azione di governo e il successo nei sondaggi non mettono in discussione, per ora, la presenza del centro-sinistra nelle istituzioni che contano.

Decenni di occupazione garantiscono una rendita rilevante: si possono perdere le elezioni, non l’apparato statale. Politica contro burocrazia, si potrebbe dire semplificando: la destra detiene il potere politico, ma esso, al contrario delle classi dirigenti e della burocrazia, è transeunte, naturalmente destinato a deperire. E poi, per andare alla guerra delle ideologie bisognerebbe averne una.

Di tutto questo si è accorta la destra meloniana, che tenta infatti – apparentemente – di competere proprio su quel terreno, cercando di fare entrambe le cose: dare fondamento culturale-ideologico a una nuova occupazione, a uno spoils system che imiti – nelle intenzioni – ciò che la sinistra è riuscita a fare nei decenni scorsi. Non è un caso che questo tentativo evochi perfino un nume tutelare della fu sinistra, quell’Antonio Gramsci teorico dell’egemonia. Avevano, gli intellettuali della nuova destra, tentato impudentemente – ma anche impunemente, ché nel Pd si scannano già tra di loro anche solo sugli occhi di Berlinguer stampati sulla tessera – di mettere le mani anche su Pasolini e Gobetti.

Alessandro Giuli, già direttore del Maxxi e neo ministro della Cultura dopo la caduta di Sangiuliano, in un suo librettino dal titolo Gramsci è vivo ha cercato di mettere in guardia la destra dal ripetere gli schemi di quella che egli definisce l’egemonia gramsciana, intesa nel senso di occupazione, laddove invece – come è noto – egemonia non significa certo quello, bensì la costruzione di una nuova concezione del mondo.

Dove sta, per Giuli, la lezione di Gramsci che egli pure vuole ravvivare? Non nella teoria di santini appiccicaticci o nel presidio militare delle casematte, che evidentemente l’autore vede all’opera nei paraggi della sua parte politica e la cui teorizzazione attribuisce, forzando e distorcendo, al pensatore sardo. E dove, allora?

Quel che mi pare comunque di poter dire è che il tentativo egemonico (qui sì nel senso dell’occupazione, oltre che in quello – maldestro – di costruzione ideologica) meloniano non è affatto gramsciano, bensì leniniano. Come scriveva Bobbio, per Gramsci le ideologie, di cui la società civile è la “sede storica”, non sono più il riflesso di un potere costituito, strutturale, come erano per Marx e per il marxismo (non solo Lenin, ma in Italia Labriola), ma forze creatrici di nuovo senso. In altri termini, per Gramsci l’egemonia precede la conquista del potere, mentre – è sempre Bobbio a insegnarcelo – per Lenin il rapporto è invertito, e l’ideologia “l’accompagna o addirittura la segue”.

Ciò che Giorgia Meloni – o meglio, le teste d’uovo impegnate a farla finita con la spocchia della sinistra – tenta di fare è fornire le pezze d’appoggio ideologiche al proprio successo elettorale, oltre che fornire dignità culturale al proprio governo. Prima il potere, poi la sua giustificazione. Dunque demagogia, e nel suo senso deteriore (dal momento che per Gramsci essa può avere un’accezione positiva, di costruzione dell’egemonia). Demagogia qui come “servirsi delle masse popolari” (è Gramsci a scriverlo) per coltivare le proprie piccole ambizioni, culminanti nei regimi plebiscitari. Ovvero nel premierato come formulato dai teorici del melonismo.