Le forze politiche e i sindacati oggi fieramente avversi alle minacce e ai ricatti di Tavares in Stellantis, sono in gran parte gli stessi che, nel 2010, accettarono e addirittura esaltarono le stesse minacce e gli stessi ricatti da parte di Sergio Marchionne, in quella che allora era ancora la Fiat. L’allora amministratore delegato del gruppo pose ai lavoratori di Pomigliano e poi a tutti gli altri il ricatto: o rinunciate al contratto nazionale o perdete le fabbriche. Politica e gran parte dei sindacati, esclusa la Fiom e i sindacati di base, accettarono di rinunciare al contratto e così si sono perse anche le fabbriche.
Questo ricordo è importante non solo per la credibilità di chi chiama i lavoratori finalmente allo sciopero, ma per le prospettive stesse della lotta per difendere in Italia il settore auto e soprattutto chi ci lavora.
La piattaforma di Fim Fiom Uilm con cui si convoca lo sciopero del 18 ottobre del settore è abbastanza confusa e ambigua. Prima di tutto risalta l’assenza di una critica di fondo alla proprietà e al management. La famiglia Agnelli e Tavares sembrano anch’essi quasi vittime della caduta del mercato dell’auto in Europa ed in Italia, invece che esserne indicati tra i responsabili. Così mancano rivendicazioni vere per i lavoratori, a parte l’accenno ad un “coraggioso” blocco dei licenziamenti a livello europeo.
A loro volta le richieste al governo e alla Ue sono molto generiche e senza impegni stringenti: giusto un piano auto, ma con quali obiettivi, con quali soldi e soprattutto, chi comanda, chi controlla? Purtroppo la debolezza della piattaforma sindacale risente evidentemente delle scelte sbagliate del passato. E ancor più ne sono segnati i tanto stentorei quanto vuoti proclami delle forze politiche.
Nel 2010 Marchionne, per conto della proprietà Agnelli, diede un colpo devastante al settore auto in Italia, mettendo in competizione gli stabilimenti italiani unicamente sul costo del lavoro e non sulla qualità delle produzioni, scelta questa che avrebbe richiesto quegli investimenti che la proprietà Agnelli Elkann non era disposta a fare. Così, tra i plausi del palazzo politico e sindacale, gli stabilimenti Fiat divennero fabbriche cacciavite fungibili e sostituibili a go go, quindi il meglio possibile per una multinazionale che acquisisse il gruppo. Marchionne non rilanciò la Fiat, la rese più assorbibile dal mercato, ad unico vantaggio della proprietà, che voleva realizzare utili senza impegnare un centesimo del patrimonio di famiglia.
Il prezzo di tutto questo per i lavoratori fu un sistema aziendale oppressivo e discriminatorio, che imponeva un generale peggioramento delle condizioni di lavoro e dei salari. Un sistema nel quale avevano qualche spazietto subalterno solo i sindacati complici, cioè tutti quelli che avevano firmato gli accordi.
È importante ripartire da tutto questo, perché ancora oggi si vuole far credere che Marchionne abbia fatto un gran bene e che Tavares invece voglia mettere in discussione il bene fatto. No, Tavares è il puro continuatore di Marchionne e chi lo nega si prepara a ripetere il 2010. Perché questo non accada occorre un cambiamento radicale dell’approccio alla crisi dell’auto e ai problemi dei lavoratori.
Prima di tutto bisogna stabilire il principio che una proprietà come quella della famiglia Agnelli Elkann deve pagare, non è possibile che la proprietà esca da questa crisi senza avere almeno restituito una parte dei soldi pubblici ricevuti e senza dare un ulteriore proprio contributo. A questo si deve aggiungere un sistema di regole che colpisca davvero le delocalizzazioni. In secondo luogo lo Stato deve essere parte attiva del processo, cioè deve entrare, come quello francese, nella proprietà del gruppo per controllarne e garantirne i risultati.
In terzo luogo occorre sì un piano strategico per il settore auto di riconversione produttiva verso l’elettrico e comunque verso prodotti non inquinanti, ma questo non può che avvenire come parte di un progetto generale di intervento pubblico dell’economia. E di rivalutazione dei redditi dei lavoratori, che oggi non possono permettersi di acquistare un’auto elettrica.
I lavoratori non devono pagare, cioè non devono subire licenziamenti, danni salariali, ulteriore aggressione alla loro dignità. La riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario deve diventare lo strumento principale con il quale si affronta il lungo processo di ristrutturazione dell’auto e dei principali settori produttivi. Insomma bisogna finirla con la libertà di mercato e con il potere assoluto di ricatto delle multinazionali. Se si farà così, rompendo con la subalternità del passato, i lavoratori e la produzione dell’auto avranno un futuro. Altrimenti si ripeterà in peggio il 2010.