di Claudia De Martino

Come tante cose nel pluriennale conflitto israelo-palestinese, anche la missione Unifil è un’anomalia: un’operazione inizialmente pensata come un intervento “ad interim” (come richiama il suo acronimo: letteralmente, United Nations Interim Force in Lebanon), per colmare un temporaneo vuoto di sicurezza, si è trasformata nel tempo in una “missione di pace” permanente – puntualmente rinnovata annualmente ogni agosto da 56 anni – di cui però adesso il primo ministro Netanyahu chiede il ritiro a guerra in corso.

Istituita nel 1978 dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (Unsc) a seguito di una prima invasione israeliana del Libano in risposta ad un attentato terroristico presso Tel Aviv, il suo obiettivo prioritario avrebbe dovuto essere quello di aiutare il governo libanese a ripristinare la propria sovranità nel sud del Paese, cosa che non è mai successa. Solo quattro anni dopo, infatti, Israele invase una seconda volta il Paese dei cedri, finendo per restarci 18 anni. L’obiettivo di questa seconda spedizione militare era l’eliminazione totale dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) dal sud del Libano, utilizzato come base dall’Olp per lanciare attentati, ma Israele finì per occupare una “zona di sicurezza” pari al 10% del territorio nazionale, pattugliata da circa 2000 soldati dell’Idf e da altrettanti volontari arruolati in un neo esercito locale (l’Esercito libanese del sud) leale a Tel Aviv.

Nel maggio del 2000, Israele decise di ritirarsi e una nuova risoluzione del Consiglio di sicurezza (Ris. N. 425/2000) sancì i temporanei confini tra i due Paesi, meglio noti come “Blue Line”. Il ritiro si rivelò, tuttavia, temporaneo, perché Israele non riuscì nel suo intento finale, quello di assicurare sicurezza alle regioni settentrionali, e nel 2006 scattò una terza breve invasione, della durata di 34 giorni, a seguito di un’imboscata letale tesa da Hezbollah ad alcuni soldati israeliani al confine. A seguito di questa terza operazione militare, una nuova risoluzione delle Nazioni Unite (Ris. 1701/2000) allargò il mandato dell’Unifil come forza di interposizione tra Israele e un nuovo attore politico, Hezbollah, il Partito di dio, emerso come una forza paramilitare di tutto rilievo e completamente indipendente dall’esercito libanese durante il conflitto appena concluso. La nuova risoluzione stabiliva che le forze paramilitari di Hezbollah non potessero valicare il fiume Litani, posto a circa 30 km dalla frontiera con Israele, né potessero stanziare armi al confine. Nessun trattato di pace venne stipulato tra i due Paesi, ma solo una tregua indefinita che sarebbe spettato all’Unifil monitorare.

Da allora e fino alla quarta invasione del Libano, quella attualmente in corso, le forze Unifil sono sempre rimaste nell’area loro assegnata, totalizzando fino a 10.000 presenze, composte di contingenti internazionali provenienti da più di 50 Paesi, di cui l’Indonesia è il più forte contributore e l’Italia il quinto (con Spagna e Francia a seguire), con 1076 militari e ben quattro Head of Mission e Force Commander (HoM/FC) italiani dal 2006 ad oggi. Il mandato dell’Unifil resta ibrido: da un lato gli si chiede di agire come una forza di monitoraggio del conflitto sempre latente tra l’Idf e Hezbollah, dall’altro di “facilitare gli aiuti umanitari e supportare la popolazione locale”, sia assistendo gli oltre 100.000 sfollati del Sud del Libano – oggi divenuti oltre un milione -, oggetto di tiri di razzi da Israele nel corso dell’ultimo anno di guerra, sia ospitando perfino mostre di cooperative per promuovere l’artigianato locale in una zona economicamente depressa come il sud del Libano.

Israele ha sempre lamentato l’inefficacia e l’inutilità di una missione internazionale che non soddisfa i requisiti minimi, tanto che il 90% dei missili lanciati nel corso di quest’anno di guerra da Hezbollah sarebbe provenuto da quest’area sotto la sua giurisdizione. In effetti, è evidente che il mandato Unifil sia stato aggirato dall’abilità di Hezbollah di continuare a stoccare armi e lanciare missili da terreni dichiarati di “proprietà privata” e quindi inaccessibili ai caschi blu Onu, o con altri trucchi, come quello di adottare coperture civili per attività militari, ad esempio attraverso l’istituzione di una Ong chiamata “Green Without Borders”, che in nome della lotta ambientalista ha stabilito oltre 30 posti di osservazione lungo il confine. Tuttavia, su sollecitazione di Israele, l’Unifil ha contribuito a identificare quattro tunnel scavati sotto al confine, rischiato alcuni suoi uomini in confronti diretti con Hezbollah, come ad esempio nel dicembre 2022 nell’incidente di Al-Aqbiya, e anche contribuito a sventare alcune incursioni di miliziani in territorio israeliano, pur non riuscendo ad esempio a prevenire provocazioni come l’allestimento di due tende di Hezbollah sul Monte Dov nel luglio del 2023.

È tuttavia dall’8 ottobre 2023 che l’equazione è completamente cambiata: a seguito dell’attentato di Hamas, non preventivamente coordinato con la milizia sciita libanese, Hezbollah decise comunque di inserirsi nella guerra per aprire un altro fronte, lanciando oltre 12.400 attacchi missilistici e di razzi su Israele, che hanno causato circa 30 vittime civili, 43 militari e, soprattutto, lo sfollamento dall’area settentrionale del paese da parte di circa 80mila persone. L’attuale incursione militare di terra “Frecce settentrionali”, avviata lo scorso 1° ottobre, arriva per Israele come una risposta tardiva ad un problema che si trascina ormai da un anno, relativo all’inagibilità per motivi di sicurezza di intere aree del suo territorio.

L’Unifil si trova nuovamente in mezzo a due forze in guerra, di cui almeno una, l’Idf, punta all’eliminazione totale dell’altra (Hezbollah). I miliziani sciiti continuano, nondimeno, a vantare una notevole potenza di fuoco, tanto da aver colpito una base militare nel centro del Paese, a Binyamina, lo scorso 14 ottobre, al termine del cui attacco il premier Netanyahu ha alzato i toni e richiesto all’Unifil di ritirarsi 5 km oltre la “Linea blu”. Questo dopo almeno altri due episodi precedenti in cui l’Idf aveva cercato di intimidire i caschi blu, irrompendo in una loro base e lanciandovi fumogeni, o distruggendo loro attrezzature, come macchine fotografiche.

Ad oggi, la premier italiana Meloni ha ribadito correttamente la volontà italiana (ed europea) di lasciare le truppe Unifil nell’area proprio per monitorare gli sviluppi del conflitto. Eppure, rimangono sullo sfondo alcune domande fondamentali: per quanti anni ancora una forza di interposizione Onu dovrà presidiare una delle frontiere più calde del mondo? E per quanto tempo ancora altre agenzie umanitarie dell’Onu, come l’Unrwa, dovranno “temporaneamente” assistere vecchi e nuovi rifugiati di un conflitto mai risolto? Quante nuove missioni di pace saranno necessarie per stabilizzare la Striscia di Gaza? In assenza di una soluzione politica, il rischio è che i tentativi umanitari e le iniziative internazionali di sostegno si moltiplichino, senza però aggredire alle radici il problema dell’endemica instabilità dell’area.

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