“Apparteniamo a quell’1% delle aziende fondate all’inizio del Novecento che ha superato 125 anni di cambiamenti. Sopravvivono quelli che si sanno adattare meglio ai cambiamenti delle tecnologie, dei mercati, della domanda. Siamo cambiati senza mai perdere il nostro spirito pionieristico”. Invito il Presidente John Elkann ad avere un po’ di pudore. La spudoratezza oramai è di casa nel gruppo Stellantis.
Carlos Tavares pochi giorni fa è tornato a Parigi e ha minacciato licenziamenti. Dice di non essere un mago, se non per le pozioni che usa per le stock options dei suoi azionisti. Qualche giorno fa di fronte al Parlamento, ha scomodato il darwinismo e la survival of the fittest: chi è più forte, chi meglio si adatta, sopravvive. Gli altri soccombono. Ma è stato più onesto, pur nello stesso big frame di disonestà intellettuale.
Ha chiarito subito che Stellantis, per sopravvivere in Italia, ha bisogno di un po’ di doping a fin di bene… Doping che, naturalmente, nel liberismo dei profitti, non può che consistere in fondi stanziati dal settore pubblico a favore delle grandi multinazionali. Socialisti solo per le loro perdite e i loro debiti. Anche perché qui, del pionierismo di cui parla Elkann non c’è più alcuna traccia, a meno che non ci si voglia vantare di essere pionieri della cassa integrazione ventennale.
Miliardi di euro pubblici di cassa per una società che nel 2023 ha realizzato un utile netto di 18,6 miliardi di euro, in crescita dell’11% rispetto all’anno precedente, mentre negli ultimi 17 anni (2007-2024) ha ridotto la produzione di auto quasi del 70 per cento.
Elkann si vanta dello stabilimento Fiat Trattori di Modena, all’avanguardia per le tecnologie per motori ibridi ed elettrici, ma rimuove che in Italia Stellantis produce solo 7 modelli di auto. “Grazie a Stellantis, nel mondo Fiat è in gara”. E su questo non abbiamo dubbi. Ma c’è ben poco di cui sentirsi orgogliosi. In Italia, dove Fiat è nata, un deserto industriale comincia nei più di due milioni di metri quadri vuoti di Mirafiori e lambisce Termoli, dove il futuro della Gigafactory è avvolto nella nebbia, Cassino, con la produzione al 40% di calo, Pomigliano, gettata nell’incertezza sui prossimi modelli, Melfi, con i volumi dimezzati, perfino Atessa.
”Le persone che hanno assunto crescenti responsabilità nelle nostre società sono sempre state dirigenti, capaci di identificarsi con l’azienda, la sua cultura e il suo sistema di valori. Persone animate da un forte spirito di squadra, accomunate da un forte senso di responsabilità nei confronti delle comunità in cui vivono”.
Elkann dimentica che non esisterebbe nessuna comunità, senza gli operai che costruiscono le auto di Stellantis. In che modo potranno loro sentirsi parte di quello spirito di squadra? Di quella cultura? Quale cultura? Quella della delocalizzazione e degli incentivi pretesi sotto minaccia di una fuga che è già in atto da anni? Quella che addita il caos e le regole imposte dall’Unione Europea, raccontando che la crisi è figlia della transizione ecologica, come se non ci ricordassimo di Marchionne e del referendum di Mirafiori del 2011?
Questa io la chiamo cultura della menzogna.
Lo abbiamo detto in aula a Tavares: se ritiene di meritare altri incentivi, riporti a casa le produzioni che negli ultimi due anni sono volate all’estero, presenti un progetto industriale che indichi e quantifichi investimenti, modelli, garanzie sotto il profilo produttivo e occupazionale, confermi i tempi di realizzazione della gigafactory di Termoli.
Lo diciamo a Elkann: invece di ubriacare tutti con le sue falsità, riporti la sua residenza in Italia, riporti le macchine e il marchio Fiat in Italia.
“Vi sento arrabbiati”, ha detto con i detti stretti Tavares. Non sa quanto. Lo vedrà nelle facce delle tute blu unite in piazza venerdì. La rabbia nostra, delle lavoratrici e dei lavoratori che cammineranno per Roma sarà però accompagnata dalla consapevolezza di stare lottando non solo per sopravvivere, ma per il futuro della manifattura in Italia. Di farlo per le migliaia di famiglie che lavorano nell’indotto del settore automotive. Perché in Italia si possa ancora disegnare, progettare e produrre le auto del futuro.
Non ci rassegniamo. E chiediamo al Paese di fare lo stesso.